Troia, ora sappiamo com'era davvero

E allora il nostro auspicio è che da qualche parte — sui giornali, alla televisione, nelle scuole — si colga l'occasione per parlare seriamente della città cantata da Omero. In particolare, perché se ne facciano conoscere le ultime novità, ossia le scoperte più recenti che sarebbero da definire clamorose se non fosse che sono rimaste — almeno da noi — senza eco. Gli scavi nella città più famosa del mito sono ripresi nel 1988 (dall'archeologo tedesco Manfred Korfmann, dell'Università di Tubinga. Una grande mostra aperta a Stoccarda per quasi un anno, dal marzo 2001 al febbraio 2002, ne ha divulgato la parte più intrigante. S'è trattato di scoperte rivoluzionarie, cioè tali da rimettere in discussione convinzioni ritenute ormai acquisite. Ma quanti insegnanti ne avranno almeno accennato ai loro alunni prima di cominciare a leggere in classe l'Iliade? La prima scoperta ha definitivamente eliminato lo scetticismo di quanti trovavano — giustamente — da ridire sull'esiguità dell'insediamento ritrovato da Schliemann sulla collina di Hissarlik. Ma quella non era che l'acropoli di Troia: la cittadella! La città vera e propria s'estendeva ai suoi piedi, dove sono stati ora rintracciati i resti di mura di fortificazione con porte e un fossato esterno che recingevano una superficie di 270 ettari (contro i 27 circa dell'acropoli). Il ritrovamento di questa città — che avrebbe potuto avere fino a 100.000 abitanti — ha premiato la sagacia dell'archeologo (e della sua équipe di esperti internazionali) che, prescindendo da ogni tipo di condizionamento, ha voluto indagare il luogo come un qualsiasi sito archeologico: se mai, in rapporto alla sua posizione strategica, tra Europa e Asia, a controllo della via marittima dell'Ellesponto, i Dardanelli. La seconda scoperta ha fatto giustizia della cosiddetta «interpretazione greca» della città, che durava da quasi 3000 anni: dai tempi di Omero! Troia non era — come s'è sempre creduto — una città greca o dominata dai Greci stabilitisi per la prima volta sulle coste dell'Asia Minore. Era invece, anatolica: una di quelle città, residenziali e mercantili, che nella penisola asiatica facevano parte di un ben congegnato sistema di rotte e di nodi commerciali gravitanti nell'orbita dell'impero ittita, molto tempo prima che arrivassero i Greci. E che essa fosse «rivolta» a est piuttosto che a ovest, lo testimoniano vari indizi, a cominciare proprio dalle mura caratterizzate dall'impiego — tipicamente orientale — dei mattoni d'argilla al di sopra dei filari di pietre. Ma la conferma di quella che in passato era stata soltanto un'ipotesi «di minoranza» è venuta dal ritrovamento di un sigillo di bronzo con un'iscrizione geroglifica in luvio — la lingua indoeuropea affine e coeva all'ittita che potrebbe essere stata quella parlata nella stessa Troia — menzionante uno scriba che rimanda agli archivi dei palazzi reali di Hattusa, la capitale degli Ittiti, presso l'odierna Boazkoy, non lontano da Ankara. In particolare, al testo di un trattato, stipulato nel primo quarto del XIII secolo avanti Cristo — con la garanzia del dio Apaliunas — tra il gran re Muwatalli II e un suo vassallo chiamato Alaksandu, re di una città-stato indicata col nome Vilusa o Vilio, scritto col digamma iniziale (che si legge come una v). La caduta, del tutto normale e consueta, del digamma porta direttamente all'omerica Ilio (l'altro nome di Troia) nella quale, com'è noto, il figlio del re Priamo, Paride, era chiamato pure Aléxandros che equivale ad Alaksandu. È poi appena il caso di ricordare come tra gli dèi protettori di Troia vi fosse Apollo, facilmente identificabile con Apaliunas. Ce n'è a sufficienza per concludere che le nostre conoscenze su Troia sono profondamente mutate e che le novità inducono a ridefinire il ruolo e il significato della città. Nulla è cambiato invece circa l'identificazione, sul terreno, della fase storica cantata da Omero che resta pertanto quella corrisponde