Addio Valerio, editore di passioni

Valerio lo ricorderanno tutti per avere saputo regalare alla Feltrinelli e a noi italiani il Dottor Zivago di Boris Pasternak e Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Ma per me Valerio è solo un amico che non c'è più. Portato via l'altra sera dalla sovrabbondanza di vita che l'ha sempre accompagnato. In questi casi si dice «dopo lunga malattia», e invece io, stupido, del suo tumore quasi non m'ero accorto. Valerio l'ho conosciuto dieci anni fa e forse più. Era un compagno di grandi mangiate e infinite chiaccherate. Un vulcano di idee, e quante me ne ha fatte arrivare anche qui a Il Tempo... Uno straordinario giornalista investigativo, con la passione di un ragazzino. L'ho seguito, e sono stati lunghi mesi, quando dava la caccia agli archivi sovietici e italiani per scrivere quell'Oro di Mosca che infine fu pubblicato. Non importava cosa facesse: l'editore, il giornalista, il detective, il consigliere della Biennale, perfino il gourmet (anche se a cucinare, scrivere, ordinare i suoi libri era sempre il suo amato angelo, la moglie Tilde). È che in quel che faceva metteva dentro se stesso come non capita quasi mai a nessuno di noi. In un mondo abituato a barare con la vita, Valerio trasudava una folle sincerità. Non si nascondeva, lanciava sassi che spesso diventavano boomerang. Cambiava idea acquistando la stessa granitica certezza che l'aveva guidato nella direzione opposta. E si innnamorava, oh come si innamorava. Non ho mai visto nessuno innamorarsi anche di piccole cose come accadeva sempre a lui. Scrivendo l'Oro di Mosca si è innamorato di ogni documento scovato in un archivio polveroso. Di un ragazzo universitario che gli dava una mano da Bologna e che per lui era già diventato un grandissimo giornalista, dell'ex dirigente delle Coop rosse che lo riforniva di appunti, della signora russa che per e-mail traduceva le notarelle uscite dalle stanze del Kgb («suo marito cerca un lavoro, glielo puoi dare? È straordinario...»). Lo stesso amore che lo portò a Venezia, alla Biennale. La stessa passione, sempre preso in una battaglia importante. E magari subito dopo nella controbattaglia. Aveva preso di punta Franco Bernabè, e ogni volta in consiglio della Biennale esplodevano fuochio di artificio. Ma alla fine mi disse: «ma no, Bernabè non era male...». Anche con Davide Croff aveva subito incrociato la spada alla sua solita maniera, ma alla fine sarebbe stato diverso. Come vorrei avere vissuto alla Valerio Riva, sempre pieno di grandi amori e grandi battaglie. Di risate a bocca larga, di curiosità, di tenera comprensione, di gusto per ogni giornata. Che peccato non esserci visti di più in quest'anno più difficile. Che consolazione immaginarlo già a ridere e innamorarsi dell'eternità...