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di SERGIO DI CORI LOS ANGELES — Nonostante il battage pubblicitario, i servizi di moda ...

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Bocciato con forza al botteghino, il film, nonostante il fiasco, ha regalato invece a Robert De Niro una valanga di critiche entusiastiche per il modo in cui il celebre attore ha inventato il personaggio del medico che clona un figlio dall'unghia di un cadavere. «Godsend» è stato strapazzato dalla critica che ha salvato soltanto lei. Contento degli applausi? «Non troppo. Lo dico non per vanteria, ma per il fatto che penso siano stati un po' troppo severi e cattivi con il film e ad essere sinceri mi ha un po' scocciato il fatto che abbiano attaccato tutti tranne me. Sul set c'era una bella atmosfera e il film, a mio avviso, è venuto molto bene. Anche se può sembrare autodistruttivo, devo dire che la critica, questa volta, ha preso una cantonata. Penso che c'entri anche il fatto che sulla clonazione siamo ancora troppo sensibili ed è difficile affrontare questo tema senza malanimo». Anche in questo film lei fa la parte del cattivo. Nonostante abbia interpretato anche tanti ruoli leggeri, sembra che le vengano meglio quelli negativi, come mai? «Innanzitutto, perché è più facile, si tratta di un trucco. Un banale trucco da baraccone che ogni animale di cinema conosce. È molto difficile fare il buono riuscendo a diventare un'icona o un mito rappresentativo. Così come per le donne, finiscono per avere un enorme successo le femme fatales e le cosiddette donne selvagge, per noi maschi è quasi impossibile imprimere la memoria dello spettatore se non andando ad esplorare la parte buia di ciascuno di noi. Solo Gary Cooper è riuscito a diventare un mito rappresentando sempre il meglio della parte maschile». Vuol dire quindi che lei preferisce fare il cattivo nei film per opportunismo? «No, non è così. La verità è che mi piace fare il diavolo e tirar fuori sullo schermo il peggio di me stesso. Diventa un atto catartico». C'è un ruolo particolare al quale è rimasto legato con più affetto? «Sì, quello del pugile Jake La Motta, nel film "Toro Scatenato", anche se il film, osannato dalla critica, non fece tanti soldi, anzi». Perché proprio quel film? «Innanzitutto per la preparazione meticolosa. È stata la prima volta nella mia vita che ho accettato di ingrassare 30 chili per girare delle scene e poi dimagrire 30 chili in due mesi per girare altre scene. Fu un viaggio trascendentale all'interno della professione dell'attore, e Martin Scorsese (che per me è più che un regista o un maestro, è quasi un fratello) conoscendomi bene, mi spinse proprio in quel settore di autoanalisi. Il personaggio venne bene proprio perché il pugile, sullo schermo, viveva il dramma della propria identità tra professione ed esistenza e io, come uomo, vivevo altrettanto in quanto attore. Fu un raffinato psicodramma giocato tra me e Martin».

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