Atenei: un bene la lista aperta per i docenti

Credo, però, che la proposta della lista aperta di idonei per professori associati e professori ordinari risulti, nella situazione attuale, la proposta migliore. Le diverse commissioni elette dai colleghi dei rispettivi raggruppamenti scientifico-disciplinari dichiarano, a scadenze prefissate, idonei all'insegnamento candidati che hanno dato buona prova nella ricerca. Saranno poi le diverse Facoltà a chiamare gli idonei considerati più adatti. In questo modo, le commissioni non saranno costrette ad arzigogolare cavilli per escludere candidati degni di idoneità almeno tanto quanto quelli (ieri tre, oggi due) dichiarati idonei. E' da rifiutare qualsiasi sistema iniquo, che induca a scoraggiare persone scientificamente valide. E che trasforma le commissioni in surrogati del vecchio ufficio di collocamento. L'obiezione più insistente contro la proposta della lista aperta (di idonei) è che le liste aperte diverrebbero sempre più aperte, dichiarando idonei bravi e meno bravi. Innanzi tutto, non si vede la ragione per cui le commissioni giudicatrici sarebbero irresponsabili davanti ad una lista aperta e responsabili, invece, con una lista chiusa. Chi ci dice che nella lista chiusa passerebbero soltanto i bravi e non invece anche i meno bravi o proprio i meno bravi? Exempla abundant. La cosa di maggior rilievo che viene sempre sottovalutata è che con la lista aperta i bravi non verrebbero esclusi. Nella recente proposta ministeriale del riordino dello stato giuridico della docenza universitaria si è inteso ovviare al «localismo» dei concorsi. I concorsi attuali, si dice, non escludono mai il candidato di quella Facoltà che ha chiesto il concorso. A parte il fatto che questo non è sempre vero e a parte il fatto che se una Facoltà mette al bando un posto pensando ad un candidato locale, il più delle volte lo fa perché quel candidato ha dato buona prova di sé, va detto che la proposta ministeriale ha come conseguenza inintenzionale non l'eliminazione del localismo ma il suo irrigidimento. Supponiamo che un professore associato si senta pronto per il passaggio a professore ordinario, va da sé che costui, prima di far mettere al bando il posto, si accerterà, per quanto possibile, sull'eventuale consenso di cui gode presso i docenti di ruolo del suo settore scientifico-disciplinare e sul consenso della Facoltà per l'eventuale chiamata, e se non avrà assicurazioni del genere, non si agiterà per far bandire il posto. Dunque: la prevedibilissima conseguenza del tanto sbandierato «concorso nazionale» (tanti posti messi a concorso quanti ne chiameranno le Facoltà, aumentati del 20%) è il localismo più ferreo o la paralisi dei concorsi. Allo stato attuale sembra proprio che tutti o quasi tutti i guai dell'Università dipendano dai ricercatori. Ed ecco il ritornello: è un male che il posto da ricercatore sia un posto di ruolo; il posto di ruolo alimenta la fannulloneria, ecc. E quanti sono i professori ordinari che non fanno ricerca da anni? E vale la pena di precisare: nessuno intese diventare ricercatore per rimanere tale; esistono ricercatori (e non sono pochi e nemmeno tanto giovani: dei 21.000 ricercatori più di 1.000 sono ultrasessantenni; 7.600 ultracinquantenni; 6.500 tra i 40 e i 50 anni, solo 200 sotto i trent'anni) che sono fior di uomini di scienza e ottimi docenti; se tanti sono rimasti ricercatori è perché non sono stati chiesti concorsi per loro; se alcuni di questi non hanno prodotto scientificamente un granché è perché per anni hanno dovuto sopportare grossi carichi didattici, supplendo spesso i «loro» ordinari indaffarati magari in lucrosi studi privati. E chiedo: se gli attuali 21.000 ricercatori si rifiutassero di fare didattica, che ne sarebbe dell'università? Considerando, inoltre, che nel 2020 andranno in pensione, raggiunti i 70 anni, circa 23.400 docenti di ruolo, (13.977 ordinari e 9.977