Demoniaco Poe dipinge il lutto di bianco

Ho scoperto pozzi e pendoli, delitti della Via Morgue, lettere rubate, case Usher ruinanti, scarabei d'oro e gatti neri, e donne dal fascino mortuario come Berenice, Morella, Ligeia, più o meno a dodici anni, nel grigio splendore della vecchia BUR. Ho letto Poe in un crescendo di brivido e di piacere: perché lo scrittore di Boston è questo che distribuisce a piene mani, trascinandoti dentro dèmoni e meraviglie, fantasmi e allucinazioni,morti che tornano e morti apparenti, senza che tu opponga resistenza. Fastoso e lussureggiante anche nelle storie più tetre, abilissimo nell'oliare i meccanismi dell'invenzione e nel partorire sorprese che ti bloccano il respiro, seduttivo nei suoi scenari decadenti con femmine pallide ed esangui morbosamente eccitanti, Edgar, una volta che ti ha imprigionato nella sua magìa, non ti lascia più libero. E siccome ti convinci che in qualche modo ci sia sempre lui dietro i suoi personaggi e che l'«io narrante» non sia finzione letteraria ma profilo autobiografico affidato a sparsi «tranches de vie», ecco che ti vien voglia di conoscerlo bene, Poe, e ti tuffi in opere e giorni, e scopri che, se non particolarmente bello, di sicuro era abbastanza dannato. A sua discolpa, un rosario di sventure che sin da bambino gli era stato messo in mano perché lo schiccolasse; e lui lo fece, aggrappandosi alla vita, inseguendo l'amore e vagheggiando letterari allori, sempre, però, con foschi presagi per la testa. Malata, come malata-oh, la funesta tisi! oh, il divino «mal caduco»! - era quasi tutta la gente che gli stava intorno - genitori, parenti, cuginette precoci precocemente concupite - e che, con i nomi più vari, fa capolino da questo o quel racconto. Malato, il nostro Poe, dicevamo, e di quelli che si curano con l'alcool, del resto efficace spronatore di fantasie. Edgar le coltivò e le fece tutte esplodere in cupa sontuosità barocco-decadente, non solo nei racconti ma in una poesia tramata di suggestioni, simboli, e segnali di potente innovazione letteraria come «Il corvo», dal cui «canto» Baudelaire fu stregato. Ma anche un romanzo come «Gordon Pym» è un piccolo, lavoratissimo gioiello. Col suo eroe inquieto e ribelle che si imbarca per un Non-so-dove irresistibilmente attraente e tutto sperimenta nel corso del viaggio: le tenebre della stiva, la fame, la sete, la feroce rivolta a bordo, i ribelli che si scannano tra loro, i naufragi, i vascelli fantasma, i morti appestati, i selvaggi dall'animo diabolico, le grotte labirintiche, i precipizi. Fino all'approdo in una contrada ignota, tra smaglianti biancori: e anche il bianco può essere il colore del lutto. Non ci sono pause per il lettore, assediato da visioni e allucinazioni fino a un epilogo che apre a nuovi misteri: «Una moltitudine di uccelli giganteschi, di un livido color bianco, si alzava a volo incessantemente dietro al veliero(...). Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve».