di LIDIA LOMBARDI Tra le foto più care, nel suo album di inviato speciale, quella con Albert ...

Antonio Spinosa (che a Schweitzer dedicò due libri, nel '60 e nel '66), lo incontrò nel Gabon, nel villaggio ospedale sulle rive del fiume Loguè. «Ricordo come ieri la prima sera. Eravamo a tavola e ci servivano neri con braccia e gambe avvolte da bende. "Sono lebbrosi", mi disse Schweitzer, "ma non si preoccupi, questa malattia non è contagiosa. E se lo fosse, si manifesterebbe tra dieci anni". Io ero giovane, e per dieci anni mi sono chiesto: ho preso o no la lebbra?. Anche se in fondo in fondo mi dicevo: no, Schweitzer non avrebbe mai rischiato». Sorride Spinosa, gli piace la battuta, lui che mischia efficienza (è stato direttore del «Roma» e dell'Agenzia Italia, della «Gazzetta del Mezzogiorno» e di Videosapere Rai) a un'allegria di stampo meridionale (è nato a Ceprano, nel Frusinate, ha vissuto da ragazzino a Isernia). «Il giornalismo? Mio padre voleva che imparassi a suonare il piano. Abitavamo in un vicolo stretto, tanto che il mobile dovette entrare dalla finestra. Dopo un mese di lezioni il maestro disse: "Non è cosa". E quanto papà seppe che volevo fare il giornalista urlò: "Poveri noi, il giornalista per la fame perde la vista". Com'è andata a finire? Che alla mia età non porto gli occhiali».