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«Ma oggi preferisco la montagna dove ancora posso trovare solitudine e tranquillità»

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Dal 1915, a causa di un terremoto, quel piccolo borgo non aveva più nessun abitante. Ma due anni fa, grazie alla scrittrice Dacia Maraini, che ha una casa nel vicino Pescasseroli, dove trascorre le vacanze estive, quel paese rivive grazie a un festival drammaturgico che richiama un grande afflusso di pubblico e molti ospiti di spicco. Lo affianca una scuola di drammaturgia, l'unica in Italia, voluta fortemente dalla scrittrice, che, instancabile ed entusiasta, anche in estate si riposa lavorando. La sua ultima fatica letteraria, scritta insieme a Piera Degli Esposti, «Piera degli assassini» (Rizzoli), sta riscuotendo un notevole successo. Signora Maraini, d'estate si legge più del solito, perché finalmente si ha il tempo per farlo. E a proposito di libri, su quali si è formata da bambina? «Sono cresciuta soprattutto sui grandi libri di mare, che leggevo e rileggevo, Conrad, Stevenson, Melville, Verne. Mi sono sempre domandata come mai l'Italia, che è un Paese marino, non abbia una letteratura di mare degna di questo nome». A proposito di mare e dunque di estate, ce n'è una che le sia rimasta particolarmente nel cuore? «Ne rammento tante, perché ne ho vissute molte». Nel libro «La nave per Kobe», ad esempio, dove racconta il lungo viaggio con la sua famiglia a bordo del Conte Verde verso il Giappone alla vigilia dell'ultima guerra, lei parla di Bombay, che vide da piccola insieme a sua madre e poi ha visitato di nuovo da adulta, durante un'estate in compagnia di Alberto Moravia. «Ma non è certo una delle estati che ricordo con più nostalgia, perché Bombay è una città caotica e infernale, e faceva un caldo terribile : il termometro segnava 45 gradi all'ombra e dovevamo stare tutto il giorno chiusi in albergo. Si poteva uscire solo la mattina presto, prima delle sette, oppure la sera. Non era un bel vivere. Più di Bombay, semmai, mi colpì Benares, col suo largo fiume color fango, i malati che andavano a lavarsi nelle correnti sacre del Gange, i moribondi che si facevano portare in riva all'acqua e lì si spegnevano, stesi su uno stuoia, per essere poi bruciati su una catasta di legna profumata. Una sensazione di irrealtà, di sensuale misticismo e di decadenza senza fine». Cosa ha amato di più dell'India e per cosa, invece, ha provato una reazione di rifiuto? «Dell'India mi è piaciuto quel mescolarsi di uomini e animali. La mucca che si aggira fra la gente al mercato, le scimmie che ti saltano sulle spalle per avere qualcosa da mangiare quando entri in un tempio vicino alla foresta. E poi l'eleganza della povertà. Gli indiani sono tutti magri, alti, ascetici, e camminano con grande dignità, come se nel mondo fossero solo in visita per una domenica di festa. Dell'India odio invece le superstizioni, che spingono a compiere gesti assurdi. Ricordo che mi raccontarono di un avvocato che aveva studiato a Londra e che, tornato in India, si era sentito in dovere di bere l'urina della vacca sacra, per purificarsi. Inoltre non mi piace il tradizionale disprezzo che gli indiani mostrano nei confronti delle bambine, che sono considerate inutili, superflue. Ammiro invece gli artisti indiani, anche se quasi sempre lavorano lontano dal loro Paese: penso a una scrittrice come Anita Desai, che vive in America, o a Naipaul, che risiede a Londra». Torniamo all'estate. Ce ne sarà almeno una alla quale lei pensa con grande nostalgia? «Nella mia memoria ci sono molte estate indimenticabili. Sono tutte quelle che ho passato in una Sicilia ancora intatta, non rovinata dalla speculazione edilizia, quando le coste erano prive di cemento e scendevano a picco sul mare pulito, quando il profumo dei gelsomini ti entrava in camera assieme al primo raggio di sole, i muli erano più numerosi delle automobili e le case in stile Liberty non erano ancora state distrutte da quella sorta di follia palazzinara che ha investito l'isola. Ricordo certi bagni all'Aspra, vicino a Bagheria, dove oggi

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