di CARLO MAZZANTINI AH, Zahara de los Atunes.

..Che tempo stupendo, sotto la vampa del sole, lo sciacquio dell'onda sulla rena, le rondini di mare che sgambettavano sulla striscia di schiuma che la risacca lasciava, in cerca di piccoli molluschi. Io e la mia principessa irlandese seduti lì davanti al nostro cortijo isolato sulla sierra ad aspettare il tramonto, il sole che scendeva arancione sulla linea dell'orizzonte, si ingrandiva, si ingrandiva calando, lasciando una scia d'oro sull'acqua, ci tenevamo per mano... Ci eravamo conosciuti a Parigi, avevamo buttato tutto il nostro passato dietro le spalle, eravamo scesi fin là ad iniziare una nuova vita... Al mattino lei preparava il suo cavalletto, la scatola dei colori, un cappello di paglia sul capo, si avviava giù per la china verso la riva sabbiosa con quel suo passo gentile, e tutta la grazia del mondo le faceva corona. Uno stormo di gabbiani si levava dagli scogli di Torre Palta, urlando e sbattendo le ali. Portava sempre con sé un sacchetto di avanzi da gettare loro sull'acqua dove si precipitavano con tuffi impetuosi a sottrarsi il boccone l'un l'altro... Sparsa sulla sierra, la mandria dei porci. Dalla finestra del cortijio si potevano scorgere le loro sagome scure, come nere macchie, disseminate qua e là a mezza costa e in fondo alla valle più verde. Quella ricerca, incessante famelica con il muso bestiale continuamente volto verso il basso annusavano, frugavano nella terra alla ricerca della magra erba, di una radice. I loro piccoli occhi scrutavano diffidenti attorno, i loro dorsi neri spelati rilucono opachi al sole che penetra fra i cespugli di rovi e le pietre. All'improvviso, se qualcuno scopre un virgulto più tenero, una radice dolce, non può trattenere un grido stridulo lancinante e tutta la mandria sparsa sul monte risponde, come un coro di invasati, grugnendo, stridendo e slanciandosi là, bramosi troccando veloci, dimenando le corte code attorcigliate, come quando Diego, il porcaro, li chiamava per il pasto soffiando dentro la sua conchiglia marina e sembrava Eumeo in Itaca lontana. A sera, quando il sole, satollo di cielo e di furore, stava per immergersi nella linea dell'orizzonte, Pepe il piccolo capraio dagli occhi smaltati, chiuso il suo gregge di capre spelate e sgambettanti nello stazzo, scendeva alla spiaggia. Lo seguivano i suoi fratelli più piccoli, Dieguito e Marequita una bimbetta dal volto arguto, la vestarella sfilacciata svolazzante sulle gambe madre. Si inseguivano sulla rena calda, lanciano grida, si rotolavano a terra. Zoppicando li rincorreva il vecchio cane spelacchiato e scheletrico, arrancando sulla sua gamba spezzata, Artigliero. Allora arrivava Titin, il pescatore gitano con la sua lunga canna da lancio. A piedi nudi, i polpacci scheletrici, che sbucavano dai calzoni rimboccati, sbiancati dal salmastro. Aveva percorso tutta la lunga spiaggia deserta che si perdeva a vista d'occhio, sotto il sole implacabile, lanciando e raccogliendo la lenza con quel moto leggero elegante come un domatore di circo equestre. Si inerpicava sulla scogliera di punta Cavalleria ed aspettava che il branco di ciovie si avvicinasse. Scrutava il mare scintillante degli ultimi raggi, con quegli occhi gialli, aguzzi, mi faceva:: - Li vedi? ... Mira, mira hombre... Stanno là. Laggiù... — E indicava col dito un punto imprecisato sulla superficie appena increspata dalla brezza. Cercavo a lungo, attento, ma per quanti sforzi facessi non mi riusciva di scorgere nulla. - Si vede l'ombra del branco riflessa sulla superficie... Ecco ora si avvicinano - Senza perderli d'occhio, svolgeva la lunga frusta avvolta sulla canna fatta di tanti pezzi uno incastrato nell'altro e che andavano assottigliandosi verso la sommità, innescava l'amo con un pezzetto di ventre bianco di pesce e cominciava a lanciare. La lunga lenza a coda di topo fischiava nell'aria e andava a deporre quella striscetta di pelle bianca in un punto preciso lontano. Con delicati colpi alla canna imprimeva a quella si