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Così il coronavirus cavalca lo smog e colpisce dove è più inquinato

Distribuzione di mascherine a Milano (LaPresse)

L'immunologo Mauro Minelli spiega la chiave di accesso che apre alla super polmonite. COVID-19 e particolato fine: il ruolo dell'inquinamento long-term nell'induzione del contagio virale

Mauro Minelli*
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Non sveliamo davvero nulla di inedito nel momento in cui affermiamo che l'inquinamento ambientale rappresenta un vero e proprio induttore e moltiplicatore di tante malattie, essendo in grado di stimolare progressivamente un'azione pro-infiammatoria. E di inquinanti ambientali, in atmosfera, ce ne sono davvero tanti e diversamente pericolosi: dal monossido di carbonio al biossido di azoto, dal benzene all'idrogeno solforato, dal famigerato PM10 al più “discreto” PM2.5.  Meno citato, forse, per quanto decisamente subdolo e invasivo, il PM2.5 è un particolare miscuglio di sostanze solide e liquide, del diametro inferiore ai 2,5 micron, circa 35 volte più piccole di un granello di sabbia fine, derivanti dalla combustione di carburanti per autoveicoli, da raffinerie e centrali elettriche, dalla combustine di materiali legnosi o di qualunque altro materiale a seguito di incendi,  ma anche dal fumo di tabacco. Nel 2018 alcuni ricercatori cinesi pubblicavano sulla rivista “International Journal of Biological Sciences” un lavoro piuttosto interessante nel quale evidenziavano un preciso nesso di causalità tra inalazione del particolato PM2.5 e gravi lesioni infiammatorie a carico del tessuto polmonare. In realtà, secondo Chung-I Lin primo nome tra gli autori della pubblicazione, questa severa risposta patologica risultava essere indotta da un'intensa e prolungata condizione di stress ossidativo generato proprio dal PM2.5 attraverso l'attivazione di un  pool di mediatori immunologici dell'infiammazione (IL-6, AKT/STAT3/p65) e con il coinvolgimento cruciale e strategico dell'enzima di conversione dell'angiotensina II (ACE-2). Lo stesso enzima che poi si è rivelato essere il recettore-chiave grazie al quale il nuovo coronavirus riesce ad insinuarsi nelle cellule dell'ospite innescando il processo patologico evolutivo e sistemico del quale è capace.  Quasi richiamandosi a queste premesse inaspettatamente predittive rispetto a ciò che sarebbe poi accaduto esattamente due anni dopo la data di pubblicazione del predetto lavoro dal titolo “Instillation of particulate matter 2.5 induced acute lung injury and attenuated the injury recovery in ACE2 knockout mice”, in alcune comunità più avvezze ad un'attività di ricerca condivisa e, dunque, confrontata e concertata tra competenze ed esperienze diverse, si è incominciata a postulare, man mano che l'epidemia di 2019-nCov accelerava ed estendeva la sua drammatica diffusione, una credibile correlazione tra nuovo coronavirus e inquinanti atmosferici.  Si è arrivati così ad ipotizzare, sulla base di riscontri avvalorati da evidenze, che i pazienti affetti da CoViD in aree che presentavano alti livelli di inquinanti ambientali ancor prima dell'insorgenza della pandemia, potessero avere maggiori probabilità di morire a causa del contagio rispetto a soggetti pur colpiti dal virus ma residenti in regioni meno inquinate.  Lo studio recentissimo che a tali premesse si richiama, condotto su 3080 contee statunitensi da un gruppo di ricerca coordinato dalla Scuola di salute pubblica dell'Università di Harvard (The Harvard T.H. Chan School of Public Health) nel Massachusetts, è attualmente sottoposto a revisione e attende di essere pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine. Nello specifico lo studio si è soffermato soprattutto a valutare l'azione peculiare dei già citati inquinanti complessivamente indicati con la sigla PM2.5. Più in particolare, i ricercatori hanno valutato la stretta correlazione tra alti livelli di PM2.5 e più elevati tassi di mortalità da epidemia 2019-nCov. Il lavoro speculativo da essi condotto ha portato a stimare per esempio che se, nell'arco temporale degli ultimi 20 anni, Manhattan avesse abbassato il proprio livello medio di particolato anche solo di un'unità, o di un microgrammo per metro cubo d'aria, quel distretto nevralgico della città di New York avrebbe probabilmente contato circa 250 morti in meno rispetto a quanti la CoViD 19 ne aveva procurati fino allo scorso 4 aprile. Allo stesso modo è stato ipotizzato sulla base di valutazioni predittive condivise, tra gli altri, da Francesca Dominici, professore di biostatistica ad Harvard che ha guidato lo studio analitico, che una persona che vive per decenni in una contea con alti livelli di particolato fine ha il 15% in più di probabilità di morire di coronavirus rispetto a qualcun'altro residente in una regione con un'unità in meno di inquinamento da PM2.5. Sicché, secondo stime che partono proprio da queste premesse, il distretto di Columbia, che coincide territorialmente e politicamente con la città di Washington, probabilmente avrà un tasso di mortalità più elevato rispetto all'adiacente Contea di Montgomery nello Stato del Maryland. La contea di Cook, nell'area nord-orientale dello stato dell'Illinois che include Chicago, dovrebbe essere più penalizzata rispetto alla vicina Contea di Lake nello Stato dello Utah. La Contea di Fulton nello Stato della Georgia, che include Atlanta, rischia di contare più morti rispetto all'adiacente Contea di Douglas nello stato del Colorado. Tra i suggerimenti più interessanti che, indirettamente, emergono da questo studio in termini di ricadute socio-assistenziali è che i decisori e i loro consulenti, al fine di ottimizzare le scelte operative, dovrebbero considerare che le realtà territoriali con livelli più elevati di inquinamento  da particolato fine saranno quelli che, avendo un numero maggiore di ricoveri e di decessi, dovranno garantirsi, nel mentre la CoViD continua a diffondersi, la più gran parte delle risorse e delle dotazioni di supporto in termini di disponibilità di operatori sanitari, dispositivi di protezione individuale, ma anche di respiratori o ventilatori, ospedali attrezzati, farmaci e posti letti per terapie intensive cardio-respiratorie.    Pur non essendo ancora del tutto chiaro se l'azione più nociva del particolato sia quella di favorire la diffusione del coronavirus o, invece, quella di predisporre le persone più massivamente esposte ad un maggiore rischio di malattia, c'è motivo di ritenere che lo stress ossidativo indotto da PM2.5 possa produrre quella “tempesta citochinica” in grado di compromettere gravemente la funzionalità polmonare e non solo quella. E proprio lo studio pubblicato nel 2018 da Chung-I Lin e coll. rivelò la capacità del PM 2.5 di provocare lesioni polmonari nei topi tanto più severe quanto più associate ad alterati livelli di espressione del già citato enzima di conversione dell'angiotensina II (ACE-2) nel tessuto polmonare.  E sta qui sta lo snodo cruciale del ragionamento: nel senso che, nel 2018 fu dimostrata dai ricercatori cinesi un'aumentata espressione di ACE-2 nel tessuto polmonare di topi esposti al PM2.5. In realtà, tale sovra-espressione sembra essere protettiva contro lo sviluppo di polmoniti. Ne è prova il fatto che i topi knockout - cioè quelli nei quali sia stato inattivato il gene che codifica per l'enzima ACE-2 - non esprimendo questo enzima sviluppano, in seguito ad una massiva esposizione a PM2.5, una potente infiammazione del tessuto polmonare. Ciò concorda con l'evidenza che un deficit preesistente e persistente di ACE-2 attivo porta ad risposta iperinfiammatoria e conseguente danno polmonare. Per contro, è ragionevole supporre che gli individui permanentemente esposti a livelli medi o alti di PM2.5 sviluppino, per iper-espressione di ACE-2, una sorta di automatica protezione contro l'infiammazione nonostante la micidiale composizione chimica di questa miscela di microinquinanti. Tale particolarità, tuttavia, può non risultare del tutto utile e vantaggiosa nel caso in cui, come accade nella COVID-19, il virus responsabile della malattia utilizzi proprio l'ACE-2 come recettore della internalizzazione cellulare. Dunque, ACE-2 è la “serratura” attraverso la quale il 2019-nCov “inganna” la cellula umana, penetra al suo interno, la infetta e, conseguentemente, innesca tutto il processo patologico che caratterizza il quadro clinico della COVID-19. Differenze individuali relative all'espressione, alla distribuzione e alla reattività di ACE-2 potrebbero spiegare, almeno in parte, la diversa entità dei quadri sintomatologici variamente espressi dai soggetti colpiti. Nei bambini, per esempio, è stato ipotizzato che la loro minore vulnerabilità rispetto al nuovo coronavirus sia imputabile proprio al fatto che i recettori ACE-2 possano non essere così sviluppati, ovvero avere conformazione diversa rispetto a quegli degli adulti, ciò che renderebbe più difficile la connessione tra la proteina di superficie (spike protein) delle particelle virali e la serratura d'ingresso nelle cellule.     Pertanto, considerando che, soprattutto alcune zone del nord-Italia risultano essere più massivamente e cronicamente esposte ad alti livelli di PM2.5 - ciò che comporterebbe un'aumentata espressione di ACE-2 a livello polmonare - la documentata affinità tra il 2019-nCov e quel recettore potrebbe giustificare il più elevato tasso di incidenza e poi anche di mortalità nelle regioni del nord rispetto a quelle del centro-sud, in tal modo correlando all'ambiente - e non magari solo al minor numero di tamponi effettuati, piuttosto che alle poco credibili variazioni termiche – la differente prevalenza della CoViD nelle varie macroaree del paese. Certo, senza gli indispensabili  approfondimenti finalizzati a studiare e a definire le caratteristiche individuali dei pazienti, l'analisi fin qui condotta può risultare incompleta e, dunque, meritevole di protocolli integrativi, in realtà già cantierizzati. Malgrado ciò, tuttavia, non si può escludere la sua indubbia rilevanza  nel suggerire una connessione causale credibile, perché fondata su solide basi fisiopatologiche, tra inquinanti atmosferici, incidenza della CoViD-19 e decessi ad essa correlati.   *Immunologo e docente straordinario di Igiene

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