C’erano una volta due bambini La favola finita di Jose e Bruno
Le foto di Jose Garramon e di Bruno Romano, accostate l’una all’altra, rimandano l’eco di una somiglianza imperativa. Sono due bambini eccezionalmente belli, entrambi scuri di occhi e di capelli. Jose è la versione più levigata di Bruno: il primo è il figlio dodicenne di un funzionario Onu uruguayano, frequenta la Scuola Internazionale e vive all’Eur nei primi anni Ottanta. Il secondo è un rom, anch’egli di dodici anni, che abita con i genitori e gli otto fratelli in una roulotte nei pressi di via Ponte delle Valli, tra il Quartiere Africano e Montesacro. Bruno Romano frequenta la quarta elementare della scuola "Guido Alessi". Jose ama l’arte, s’interessa delle categorie disagiate, ha un profondo senso etico. Bruno scorrazza sulla sua bicicletta nel campo nomadi in cui vive. Entrambi restano vittime, ma in anni differenti, di destini infausti. Jose Garramon viene investito e ucciso nella pineta di Castel Porziano, ad Ostia, il 20 dicembre 1983 dal furgone Ford Transit da Marco Fassoni Accetti, fotografo e regista visionario. Accetti è l’uomo che nel 2003 si autoaccusa dei rapimenti di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. L’uomo che attribuisce il movente delle sparizioni a una guerra interna al Vaticano, tra fazioni opposte. Nella ricetta proposta da Accetti ci sono i servizi segreti, alti prelati, lo Ior, organizzazioni losche. L’uomo sostiene in pratica di aver fatto parte di un gruppo di intelligence e controspionaggio formato da laici ed ecclesiastici che si sarebbero opposti alla linea anticomunista di Wojtyla e alla gestione dello Ior da parte di monsignor Marcinkus. L’aspirante artista, che nel suo sito espone video amatoriali inquietanti, dice che ha investito accidentalmente il piccolo Garramon ma che non lo conosceva. Come mai si trovava in quella pineta, alle otto di sera? Lui sostiene che Jose fu ucciso (da lui) per sbaglio mentre insieme a una ragazza rimasta ignota si trovava nella pineta nell’ambito di un’operazione (connessa al solito complotto, dice lui) che doveva intimidire il giudice Santiapichi. Al processo per omicidio colposo, vittima il giovane Garramon, viene condannato a un anno e otto mesi di reclusione. Non trova riscontro probatorio invece l’ipotesi di un rapimento del bambino. Rapimento che è invece sicuramente avvenuto anche se l’autore non sembra avere volto, per la Giustizia italiana. Jose era uscito di casa a metà pomeriggio. Doveva girare l’angolo, entrare dal barbiere e farsi tagliare di capelli, dopodiché sarebbe tornato a casa. Non era un bambino avventato. Perché allora fu investito a più di venti chilometri di distanza da casa, nella piena oscurità di una sera di dicembre? Perché i rilievi autoptici riferirono che venne investito di spalle, mentre correva, in mezzo alla strada, per scappare da qualcosa o da qualcuno? Accetti disse solo che si fermò per capire se fosse ancora vivo. «Aveva un bellissimo volto gitano». La madre di Jose Garramon ribatté: «Come fece a vederne il volto, se il bambino aveva il volto completamente coperto dal sangue»? Nei mesi scorsi, in riferimento alle teorie espresse dal fotografo sui rapimenti di Orlandi e Gregori, Accetti è stato rinviato a giudizio per i reati di calunnia e auto-calunnia. Il caso di Jose Garramon tuttavia non è chiuso: le indagini sul suo rapimento vanno comunque avanti. Di fatto non è dato sapere chi abbia rapito e portato nella pineta il piccolo uruguayano. E neanche perché Fassoni Accetti, oggi cinquantanovenne, si trovasse in quello stesso luogo dal momento che le sue rivelazioni non sono state ritenute veritiere. BRUNO E L’ENIGMADELLA SUA SCOMPARSA Jose Garramon muore nel 1983. Bruno Romano, una somiglianza evidente con il bambino uruguayano, scompare misteriosamente il giorno di Santo Stefano del 1997, quattordici anni dopo, dal campo nomadi che è la sua città. Vivacissimo, sveglio, con l’astuzia degli adolescenti cresciuti per strada e troppo in fretta, viene visto l’ultima volta da una zia che gli offre una fetta di panettone. Ha passato il pomeriggio correndo con la sua bicicletta e provocando le ire di quelli che gli stanno accanto. Qualcuno gli ha tirato una mela in testa. Il ragazzino, che ha dodici anni, s’incammina verso via Somalia. Nessuno lo vedrà più. Viene sospettato un rom che abita nello stesso campo nomadi dal 1995. In passato ha avuto una brutta lite con i familiari di Bruno e il bambino ha detto la sua. Poche ore prima della scomparsa dell’adolescente, l’amico di famiglia è stato cacciato dal campo. Non potrà più farvi ritorno. Una consequenzialità che desta sospetti. L’uomo tuttavia, intervistato successivamente a Mondragone, dove si è trasferito, nega qualsiasi responsabilità. Qualcuno intanto riferisce di «amicizie pericolose con adulti» avute da Bruno Romano. Voci, chiacchiere. C’è anche chi giura di averlo incontrato, anni dopo, e di avergli sentito dire che non vuole più tornare a casa, che sta bene dove sta. Improbabile che questa testimonianza abbia fondamento. E dunque, quale destino infausto ha strappato quel ragazzino vivace alla sua famiglia? Si può ipotizzare che sia stato vittima di una vendetta trasversale? Oppure di amicizie adulte che lo hanno irretito, "usato" e ucciso? UNA IPOTESI COMUNE? Confrontando le storie di Jose Garramon e di Bruno Romano vi si rilevano poche similitudini, in realtà. L’unico elemento che li accomuna è la somiglianza. Ma come scartare l’ipotesi dell’azione di unico pedofilo che a distanza di anni abbia rivisto in Bruno le fattezze di Jose? E perché negare la possibilità che a uccidere una serie di adolescenti, maschi e femmine, tra il 1983 ed il 1997 sia stata un’unica mano assassina? Se i genitori di Bruno Romano hanno pianto il figlio ma non intendono approfondire, la famiglia di Jose Garramon da trentadue anni chiede giustizia e non si fermerà.