E il «re delle mozzarelle» arrestato per un refuso

Lo hanno scarcerato di nuovo, dopo averlo arrestato per la terza volta. Lo hanno rimesso in libertà perché i motivi per arrestarlo erano insussistenti, anzi, non c’erano affatto. Ma invece di festeggiare stappando champagne, il «Re delle mozzarelle» Giuseppe Mandara, proprietario del caseificio di Mondragone, che esporta il suo prodotto in molti angoli del mondo, ha trascorso la giornata con la famiglia, lo psicologo e il cardiologo, essendo gravemente malato di cuore. Un «fine pena mai» quello cui è sottoposto da decenni l’imprenditore, pur senza aver mai subìto una condanna e nonostante l’ennesimo annullamento della custodia cautelare. Un’«odissea giudiziaria» cominciata nel 1991 con il primo arresto, annullato dal Riesame. Mandara finisce nuovamente in carcere nel 2012, accusato di associazione camorristica. Anche in quel caso la richiesta dei pm, avallata dal gip, viene «cassata» dal Riesame e poi dalla Cassazione, che restituiscono la libertà all’imprenditore. Ma non è finita. Il 14 maggio scorso, infatti, per il «Re delle mozzarelle» scatta un nuovo arresto, questa volta ai domiciliari. Le accuse sono sempre le stesse: aver creato un impero economico con il contributo del clan locale, quello La Torre. Ma ieri il Riesame lo ha di nuovo scarcerato, rigettando quanto sostenuto dai magistrati, e cioè che questa volta c’erano elementi nuovi in grado di giustificare la misura cautelare. Ebbene, non c’erano, e l’arresto è stato annullato. L’accusa contro Mandara si regge sulle dichiarazioni di Augusto La Torre, un ex pentito che ha perso lo status di collaboratore di giustizia dopo aver infilato una bugia dietro l’altra. Ma per i pm, che meno di un mese fa chiedono e ottengono l’arresto di Mandara, La Torre è credibile. Non per i giudici che lo hanno sempre rimesso in libertà. Stavolta sulla base della memoria difensiva dei legali di Mandara, Vittorio Guadalupi e Raffaele Pellegrino, che innanzitutto sottolineano come già la Cassazione, nel febbraio 2013, aveva ritenuto «insussistenti i gravi indizi di colpevolezza primariamente per l’inattendibilità del principale teste d’accusa, La Torre Augusto, in ragione della tardività delle sue affermazioni, dei motivi di vendetta nei confronti del Mandara Giuseppe, delle smentite giunte alle sue propalazioni con riferimento a determinate circostanze». Un desiderio di vendetta che secondo i legali nasce da una «maniacale ossessione» dell’ex pentito verso l’imprenditore. Un’«ossessione» scaturita dal fatto che La Torre, mentre continuava a «taglieggiare» molti imprenditori anche dal carcere utilizzando un biglietto manoscritto, un giorno ne invia uno a Mandara, che però, «stanco delle vessazioni subite» lo deposita presso un notaio e poi lo consegna ai magistrati. Da qui, scrivono i legali, partono «le indagini che avrebbero portato alla revoca del programma di protezione e all'imposizione del 41bis» per l’allora pentito. E da quel momento dalla bocca di La Torre esce ogni tipo di accusa contro l’imprenditore, persino quella di aver «trafficato droga e contattato i servizi segreti». Sempre in merito alla presunta attendibilità dell’ex pentito, sostenuta dai pm, nella memoria difensiva si fa notare che gli inquirenti, nel riproporre e ottenere, nel maggio scorso, l’arresto di Mandara, si sono basati su un assunto, appunto la veridicità delle parole di La Torre, condiviso da tutti quei giudici che hanno concesso più volte l’arresto dell’imprenditore. Ma, scrivono i legali, se è vero che ci sono stati giudici che hanno creduto alle parole del camorrista, «è pure doveroso, per contro, prendere finalmente atto dello sfavorevole apprezzamento (ben esplicito) chiaramente espresso da altri giudici, i quali, con le rispettive numerose sentenze e ordinanze, hanno rimarcato la inattendibilità dello stesso». I legali di Mandara, dopo aver sottolineato che La Torre dispone in carcere di «un computer che utilizza anche per la corrispondenza» e quindi di «un archivio di dati processuali a lui riconducibili che utilizza per la ricerca di elementi che poi pone a base dei suoi calunniosi racconti», sostengono, dunque, che di elementi nuovi per arrestare il loro assistito, non ce n’erano. Già la Cassazione, tra l’altro, aveva evidenziato che la «contestazione associativa» per Mandara «postula la partecipazione a un clan il cui unico dirigente appare associato fino al 2003, buona parte dei sodali ha intrapreso da tempo un percorso di collaborazione con la giustizia (si auspica più limpido e virtuoso di quello praticato dal La Torre Augusto), non risultano attuali virulenti epigoni, né ultrattività del sodalizio. Dunque può fondatamente ritenersi che il clan La Torre non sia più operativo da almeno 10 anni (...). Ebbene, il gip ritiene di applicare la misura coercitiva per la partecipazione di due soggetti ad un clan che non esiste più da oltre 10 anni e (...) scrive che non si rileva alcun elemento di recisione di tali vincoli». Per la Cassazione questa conclusione può solo essere frutto di un «refuso non cancellato dal file precedentemente in uso». Argomentazioni, queste, che evidentemente hanno retto anche di fronte al Riesame che ieri ha rimesso in libertà Mandara. Non va poi dimenticato che le «nuove» rivelazioni di La Torre sono arrivate ben oltre i 180 giorni concessi dalla legge, sottolineano gli avvocati. Nel merito, nelle precedenti sentenze i giudici hanno scritto che in determinate circostanze, La Torre «ha tenuto un atteggiamento volto a coprire, attraverso false accuse, i veri autori di delitti». Non solo. Suo cugino, Pietro Scuttini La Torre, nel 2004, afferma: «Zia Paolina mi disse che il pentimento di Augusto era tutto finto e che era tutto finalizzato ad essere scarcerato. Successivamente avrebbe ripreso con un gruppo di persone fidate le attività criminali». Quanto al presunto depistaggio che Mandara avrebbe messo in atto sull’omicidio dell’assessore comunale Antonio Nugnes, i difensori fanno notare che La Torre poteva facilmente utilizzare il suo personale archivio per poi «costruire» le false accuse, ma soprattutto sottolineano che La Torre «confessa l’omicidio nel 2003, assumendosene la paternità e la personale partecipazione» e dopo la confessione «rende decine di interrogatori sul punto», parlando dell’omicidio Nugnes e «senza mai nominare il Mandara». Le «illuminanti» rivelazioni arriveranno otto anni dopo.