Errori, omissioni e 007 Così è diventato un giallo
Una notte calda d‘agosto. Il 7 agosto di 24 anni fa, una ragazza di 21 anni, Simonetta Cesaroni, viene trovata mezza nuda, uccisa sul pavimento di una stanza dell’ufficio degli Alberghi della Gioventù dove lavorava. La scoperta è stata fatta dalla sorella, Paola e dal datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi. Un delitto passionale è la prima impressione: una giovane donna trafitta da 29 coltellate probabilmente dopo un rapporto sessuale. Ma sono tante le stranezze che con il tempo si addensano su questa storia. Stranezze e scivoloni da parte degli investigatori, favorite dalle molte omissioni dei protagonisti. Prove raccolte a caso e agenti che scarabocchiano scritte sui fogli della scrivania di Simonetta Cesaroni e per anni fanno arrovellare tutti alla ricerca della soluzione della sciarada «CE DEAD OK» con un pupazzetto a forma di margherita. L’autrice dell’enigma è una poliziotta, che solo nel 2008 «confesserà». Ma andiamo per ordine. Sin dalle prime battute la vicenda si tinge di mistero. Il datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, contattato dalla famiglia Cesaroni, sulle prime sostiene di non conoscere dove la sua impiegata lavora. L’insistenza di Paola Cesaroni convince Volponi a collaborare e così si arriva alla palazzina di Prati in via Poma 2. Un grande condominio con sei palazzine divise da un bel giardino con fontana costruito ai primi del Novecento da una cooperativa di ufficiali dell’Aeronautica. Uno stabile che racchiude già un mistero. Nel 1984, in quel palazzo è stata uccisa un altra donna, Renata Moscatelli, omicidio rimasto insoluto. Un precedente che sembra un presagio. Poco prima di mezzanotte viene scoperto il delitto. Nell’appartamento dell’AIAG, oltre a Paola Cesaroni e Volponi c’è anche Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile. Non è arrivato subito perché dormiva presso un inquilino, l’anziano architetto Valle. Ad avvisarlo la moglie, svegliata dal trambusto. La telefonata al 113 fa convergere sul posto diverse pattuglie. Arriva anche il responsabile di turno della Centrale operativa della questura, il commissario Sergio Costa, con un passato nel Sisde. Arriva la squadra mobile e cominciano i rilievi sulla scena del delitto che, però, era già stata abbondantemente inquinata, su tutto il famoso biglietto con la scritta «CE DEAD OK». Seguendo l’ipotesi del delitto passionale viene subito ricercato e prelevato al lavoro, a Fiumicino, Raniero Brusco, fidanzato di Simonetta. Un lungo interrogatorio a San Vitale, ma il suo alibi regge. In via Poma prosegue il lavoro della Scientifica e subito salta agli occhi una prima evidenza. La scena del delitto è stata ripulita e così il tagliacarte, possibile arma del delitto, trovato sulla scrivania. Il sangue della vittima è solo sotto il cadavere eppure le 29 coltellate, inferte su tutto il corpo, hanno sicuramente provocato schizzi ovunque. Non solo, sono spariti parte degli abiti della vittima: indosso Simonetta ha un top e il reggiseno, ci sono i calzini e le scarpe. La polizia ha sempre sostenuto di aver cercato gli indumenti nei cassonetti della zona ma, di fatto, non sono mai stati trovati. Alcuni stracci per la pulizia erano nel bagno dell’ufficio, ma non ci sono tracce di sangue. Sangue invece c’è su una porta che viene divelta e portata in questura. Altro sangue sarà trovato alcuni giorni dopo nella cabina dell’ascensore. La porta dell’appartamento non è stata forzata e la serratura viene trovata chiusa con quattro mandate: quindi l’assassino aveva la chiave di quell’ufficio oppure ha portato via quelle usate da Simonetta, che gli aveva aperto. Nessuno degli inquilini del grande condominio ha sentito grida o rumori sospetti. Incerta anche l’ora della morte: si cerca conferma anche dal computer usato dalla vittima e le perizie ordinate dal pm Nebbioso stabiliscono che Simonetta ha acceso il pc alle 16,37 ma sei anni dopo un’altra perizia smentisce questo dato. I primi sospetti puntano sul portiere Pietrino Vanacore. Dopo alcuni giorni a Rebibbia, il custode viene rilasciato ma non esce completamente di scena e, proprio quando deve tornare a testimoniare in aula, si suicida nel 2010. Le indagini non si fermano ed entra nel mirino degli inquirenti Federico Valle, nipote dell’architetto Valle ma anche le accuse su di lui, agevolate dalle dichiarazioni di un confidente dei servizi segreti. Siamo al 1996, sei anni dopo il delitto non c’è né un colpevole né un sospettato. Le indagini passano di mano in mano e proseguono a tentoni. Nel frattempo si intrecciano nuovi misteri e strane rivelazioni che non fanno altro che infittire il giallo. Così, a complicare la vicenda, compare il memoriale di un certo Luciano Porcari che chiama in causa i servizi segreti e scrive testualmente «C’era un ufficio dei servizi segreti, più che un ufficio...un gabbiotto...nel cortile interno, sul lato destro, accanto alla palazzina B, lì facevano i contratti per il traffico di armi e gli aiuti umanitari...era Simonetta a scrivere quei contratti, c’erano due agenti dei servizi entrambi interessati alla ragazza...di loro farò i nomi, se sarò chiamato in Corte d’appello». Non è mai stato sentito, perché nel frattempo, grazie alle nuove tecniche di ricerca del Dna, era finito nella morsa dei magistrati Raniero Brusco. A inchiodarlo, secondo il pm Calò: la saliva del ragazzo di Simonetta, rilevata sul reggiseno, e l’impronta di un morso sulle sue carni riscontrata con una fotografia. Prove che portarono in primo grado alla condanna di Brusco a 24 anni. L’appello ribaltò quella sentenza.