500mila firme per fermare questo scempio

Il primo passo è fatto. Le firme, almeno per i referendum sulla giustizia, ci sono e sono più delle 500mila necessarie. Restano altri passaggi da compiere fino ad arrivare al voto su quesiti che potrebbero riformare alla radice il funzionamento della giustizia. Intanto però si annuncia un’altra significativa iniziativa in materia giudiziaria. Sostiene Pannella che fra le parole usate dal presidente Napolitano, durante la sua recente visita al carcere di Poggioreale, per annunciare che intende inviare un formale messaggio alle Camere sulla situazione carceraria, ce n’è una qualificante, in fin dei conti decisiva. Non si tratta di «clemenza», una pulsione dell'animo, un imperativo morale, commovente in un papa come Giovanni Paolo II quando la pronunciò a favore dei detenuti di fronte al Parlamento riunito per ascoltarlo. E non si tratta nemmeno di «dovere», perché ci si sente in dovere innanzitutto rispetto a se stessi e sempre al campo della morale, sia pure laica, il termine può riferirsi. Ma un presidente della Repubblica non è il sommo pontefice e nemmeno un professore di filosofia. È un’autorità istituzionale. E allora la parola chiave è «obbligo». Il messaggio presidenziale alle Camere è un intervento istituzionalmente obbligato. Restano pochi mesi allo Stato italiano per ottemperare all’ingiunzione della Corte europea, che ci ha imposto di rientrare negli standard propri di un Paese dove viga lo stato di diritto a proposito della situazione carceraria. Le cifre e le notizie che compongono la meritoria inchiesta a puntate che «Il Tempo» pubblica da oggi portano a un risultato comparativo addirittura umiliante per l'Italia. Sui 47 stati membri del consiglio Ue solo altri quattro superano la soglia del 30% di detenuti in più rispetto ai posti disponibili: Cipro, Ungheria, Grecia e Serbia. Quanto ai detenuti in attesa di giudizio, soltanto Ucraina e Turchia ci superano. Ma solo in cifra assoluta. Se si calcola la percentuale di quelli in attesa di giudizio rispetto all’intera popolazione detenuta, il «primato» è del nostro Paese. Visto dal particolare angolo visuale di un carcere, il legittimo orgoglio di essere cittadini di uno dei sei stati fondatori della comunità europea vacilla. Senza contare il numero di suicidi in carcere, una media di cinque al mese fra i detenuti, ma non è così raro che agenti di custodia facciano la stessa scelta. Dal 2000 i due soli anni in cui il numero di suicidi è significativamente diminuito sono stati il 2007 e il 2008. Nel 2007 fu varato il cosiddetto indultino, un provvedimento molto ridotto che il governo Prodi volle così per non irritare l’alleato Di Pietro. Nel 2009, invece, vi fu un picco di suicidi in carcere, soprattutto di stranieri, che non è stato ancora superato. Il governo Berlusconi aveva varato il cosiddetto «pacchetto Maroni» sull’immigrazione per compiacere l’alleato Bossi. Va infine tenuto presente che il nostro Stato spende per ogni detenuto, per tenerlo in condizioni peggiori di quelle di Turchia e Cipro, il 20% in più di Francia e Germania. Ma questo riguarda le nostre tasse e il loro uso. La corte europea è arrivata agli ultimatum. Sul fronte della giustizia l’Italia ormai colleziona condanne in serie fra Strasburgo e l’Aja. Ecco perché chi, come il capo dello Stato, riveste un ruolo di garanzia costituzionale, ha addirittura l’obbligo di avvertire il Parlamento che lo ha eletto di come sia necessaria una iniziativa legislativa che ci consenta di uscire da una situazione di patente illegalità. E lo può fare solo varando un vero provvedimento di amnistia, che non è una fissazione dei radicali. Il ministro dell’Interno Cancellieri, che di professione è prefetto, non assistente sociale, sull’argomento sostiene le stesse cose di Pannella. Quanto al presidente Napolitano, ha detto meno di un anno fa che, se dipendesse da lui, l’amnistia la firmerebbe non una ma dieci volte. Dipende dal Parlamento. Ed è bene che sia avvisato.