intervista

Pino Daniele svelato dal figlio Alessandro: papà cercava il suono del futuro

«Voleva coniugare le sue radici con le contaminazioni per suonare la musica del futuro». Alessandro Daniele (per tutti Alex) è il figlio di Pino Daniele e parla di suo padre scomparso quasi 8 anni fa. Ha appena pubblicato il libro «Pino Daniele - Tutto quello che mi ha dato emozione viene alla luce», in cui racconta la vita e le opere del grande musicista napoletano.
Alessandro Daniele, perché ha deciso di scrivere un libro su suo padre?
«Perché mancava una biografia ufficiale che mettesse a posto gli eventi anche dal punto di vista cronologico. Me l’hanno chiesto in tanti. Nel libro entro ed esco dalla sua vita privata e lavorativa, svelando gli aneddoti che sono dietro alla nascita delle canzoni».
Cosa le ha insegnato suo padre?
«La sua esperienza umana è una testimonianza di inclusione sociale. È arrivato dalla strada. Aveva un padre violento che giocava a carte e spesso non aveva i soldi per mangiare o pagare l’affitto. Papà non ha mai vissuto con i suoi genitori ma è cresciuto con due estranee che chiamava zie. Ha sofferto tanto ma non si è mai fermato di fronte alle difficoltà. Diceva che lo avevano salvato la chitarra e i figli».
Nel privato che padre era?
«Molto presente e affettuoso. Negli anni Ottanta abbiamo vissuto il periodo delle sue grandi tournée. Poi per problemi di salute ha dovuto ridimensionare la parte live. Amava cucinare e ci teneva a trascorrere la domenica tutti insieme. Il suo pregio più grande era riuscire a tirare fuori sempre il meglio dalle persone». 
Per lei è stato difficile essere il figlio di Pino Daniele?
«Ci sono stati pro e contro. Quando vivevo a Formia ero il "figlio di" e sentivo il disagio di essere guardato e chiacchierato. Poi, alla fine, impari a convivere con queste cose e a farti valere dando più degli altri».
Lei ha lavorato gomito a gomito con suo padre per 15 anni. Com’era come compagno di lavoro?
«Molto tosto ed esigente. Col tempo, però, abbiamo trovato un nostro equilibrio. Avevo imparato a non prendermela troppo e riuscivo a gestirlo. Di me si fidava ciecamente».
Qual è stato il momento più difficile nella carriera di suo padre?
«Sicuramente il periodo successivo all’operazione al cuore nel 1989. Papà non era stato bene già durante la lavorazione di “Mascalzone latino". Poi sul palco del Premio Tenco ha avuto un infarto. La richiesta di ricovero fu immediata e, da quel momento, tutto è cambiato. In quel periodo puntava all’estero. Voleva portare il suono del Mediterraneo in giro per il mondo».
E il momento più bello?
«Ricordo che una volta, a ridosso dell’ultimo tour, mi disse che si sentiva un uomo realizzato. Lo rendevano felice anche le piccole cose».
Quali progetti non avete fatto in tempo a realizzare?
«Innanzitutto l’album che doveva essere un disco a metà tra atmosfere latine e sinfoniche. Nel cassetto avevamo anche un tour in cui papà non avrebbe cantato ma suonato solo la chitarra».
Quale eredità musicale ha lasciato suo padre?
«L’incessante tentativo di coniugare le proprie radici con la ricerca e la sperimentazione, creando la musica del futuro. Al centro di tutto ci deve essere la sincerità e la necessità di comunicare emozioni e stati d’animo attraverso la musica».