pensiero unico

Sofia Goggia e i gay nello sport, così la Rete è diventata un tribunale

Mario Benedetto

Altro giro, altra rissa. Stavolta a dividerci in curve c’è il «Goggiagate», nato dalle dichiarazioni dell’atleta di sci sulla «mascolinità» del suo sport. E giù polemiche. Premessa: la società che vogliamo è necessariamente più inclusiva, come si suol dire oggi. La questione vera è, appunto, trasformarla da «moda» a realtà. E lo si può fa fare solamente isolando i veri avversari di questo modello e non chiunque si discosti da visioni o espressioni che non ci piacciono. Così il problema rischia di trasferirsi su un altro fronte. Infatti, per consolidare una società che premi la diversità, la riconosca come valore assoluto e, dunque, non la discrimini bensì la valorizzi, bisogna mettere al centro del nostro sistema di valori la libertà. 

 

Lo scontro più duro, anche stavolta, si è consumato in rete. È brutto vedere come, da nuovo spazio per il confronto, il web sia diventato in realtà terreno di animosità e offese, che non premiano né favoriscono l’argomentazione e il dibattito. Post scagliati come pietre, con la possibilità di nascondere la mano. I nuovi spazi di confronto in un ambiente virtuale sconfinato si dimostrano spesso un’illusione sostituita da una realtà fatta di meccanismi che «dividono», tagliando i concetti con l’accetta, parlando alla pancia, annichilendo le sfumature, strette tra le maglie di caratteri limitati. E laddove questi limiti non esistano, come su certe piattaforme, la velocità e la voracità del modo d’informare e informarsi mettono il limitatore alla nostra attenzione. Una recente ricerca parla di 8 secondi di attenzione media dedicati a un contenuto digitale. Capiamo bene che così è difficile produrre pensiero costruttivo, più semplice dar spazio a pulsioni distruttive o, quantomeno, destrutturate. 

Così si perde la capacità di riconoscere la fonte di una dichiarazione: vengono scambiati per veri non i contenuti più affidabili, ma quelli più «condivisi», popolari. Un vero pericolo di deriva per il ragionamento e il pensiero plurale per il quale ci battiamo, come nel caso in questione, che tocca l’ambito sportivo e la diversità. Anche nel momento in cui non dovessimo condividere certi pensieri altrui, dovremmo essere in grado di riconoscere il confine tra la pericolosità sociale e la libera manifestazione del pensiero: in tal caso sarebbe il suo impedimento a rappresentare il vero pericolo sociale. Al netto di posizioni violente da condannare, è fondamentale non fare di certe diversità di vedute questioni di scontro tra civiltà, ma di pluralismo fisiologico: se valore universale deve essere, giustamente, allora la diversità valga sempre e per tutti. 

 

Anche qui, la rete sembra favorirla, ma in realtà ciò avviene sempre più spesso solo in astratto. Le tendenze dei comportamenti «virtuali» fanno rimanere in superficie ragionamenti che andrebbero condotti a livelli più di sostanza: laddove non ci siano offese, non si dovrebbe attaccare con violenza (proprio quella che si vuole combattere...) posizioni di chi esprime un proprio pensiero e, di fatto, dà persino una rappresentazione non così lontana dalla realtà, come nel caso delle performance sportive rispetto alle fisicità di uomini e donne. Prenderne atto non equivale a discriminare, ma la rete non lascia tempo né scampo. 

Mettere alla gogna a suon di post e commenti non sembra espressione di una grande civiltà. Come spazio sarebbe prezioso, sta a noi poter fare della rete uno strumento più utile al confronto. Dobbiamo invertire la tendenza che vede le piazze virtuali diventare sempre meno «agorà» e sempre più luoghi in cui mettere o nascondere all’occorrenza la faccia, con la possibilità di evitare il confronto: mosse dalla volontà di abbattere barriere, possono finire per innalzarne trivialmente di altre, poco utili per i diritti e le libertà di tutti.