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E se dopo il 4 marzo si torna al voto? I casi di Grecia e Spagna

Carlantonio Solimene
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Ci sono tantissimi motivi per i quali, anche se dalle urne non dovesse uscire una maggioranza autosufficiente, i numeri per formare un governo saranno trovati lo stesso. Si tratta di ragioni economiche più che politiche. Un parlamentare appena eletto difficilmente abbandonerebbe il seggio per rimettersi in gioco in nuove elezioni immediate. Non si tratta solo della rinuncia a un corposo stipendio (peraltro definitiva per chi, come i grillini al secondo mandato, sa già che non potrebbe essere riammesso in lista) ma anche dell'eventualità di dover vanificare un corposo investimento. Tutti i maggiori partiti, infatti, chiedono ai candidati inseriti nelle liste in posizione "eleggibile" di contribuire alla campagna elettorale. Si va dai 5mila euro a candidato richiesti da Fratelli d'Italia ai 20mila pretesi dalla Lega Nord, per arrivare ai 35mila imposti da Forza Italia. Soldi recuperabili in pochi mesi di vita da parlamentare, ma che finirebbero in fumo in caso di ritorno immediato alle urne. Tuttavia, poniamo il caso in cui veramente la situazione del Parlamento dopo il 4 marzo si presenti talmente frastagliata e che i futuri onorevoli siano così ligi alla loro morale da rispettare l'impegno "anti-inciucio" imposto da alcuni leader di partito. In quella situazione, a Mattarella non resterebbe altro che sciogliere immediatamente le Camere appena insediate (o magari solo una delle due assisi) e indire nuove elezioni, magari già prima dell'estate. E' un'eventualità, come detto, altamente improbabile. Che, però, vanta due precedenti in due Paesi non lontani dall'Italia in tempi relativamente recenti. Non è una casistica così estesa da poter dare indizi certi su quello che accadrebbe, ma qualche indicazione può essere tratta. Partiamo dal caso della Grecia nel 2012. In quell'anno il Paese ellenico andò per la prima volta alle urne il 6 maggio. Nuova Democrazia, il partito di centrodestra guidato da Antonis Samaras, conquistò il 18,8% dei consensi, che si tradussero in 108 seggi, ben lontani dai 151 che sarebbero serviti per avere la maggioranza in Parlamento. La novità di quelle elezioni fu invece l'impennata del partito della sinistra radicale, Syriza di Alexis Tsipras, che si issò fino al 16% conquistando 52 seggi. Fece scalpore anche l'avanzata dell'estrema destra di Alba Dorata, che arrivò quasi al 7% accaparrandosi una ventina di seggi. In poche settimane ci si arrese all'impossibilità di formare una maggioranza, anche tentando di coalizzare Nuova Democrazia con altri partiti "moderati". Così il Parlamento venne sciolto e si tornò alle urne il 17 giugno successivo, appena sei settimane dopo il primo tentativo. E' importante raccontare un po' del contesto storico-economico dell'epoca. La Grecia era in un momento di gravissima crisi economica e le elezioni rappresentavano anche una sorta di referendum sulla possibilità di accettare o meno altri aiuti economici dall'Unione europea, che si sarebbero tradotti nella richiesta di nuove riforme all'insegna dell'austerità. Nel voto del 17 giugno Nuova Democrazia si issò fino al 29,7% dei consensi, circa undici punti (e 21 seggi) in più rispetto a 42 giorni prima. Anche Syriza fece registrare un avanzamento, arrivando al 26,9% dei voti e a 71 seggi. Alba Dorata confermò sostanzialmente il risultato precedente. L'affluenza, invece, scese di circa tre punti percentuali. Anche in questo caso la formazione di una maggioranza di governo "coerente" risultò un rebus di difficile soluzione. Alla fine Samaras diede il via libera a un governo di larghe intese che vide anche la partecipazione di due partiti della sinistra "tradizionale" (Pasok e Dimar) e ottenne la fiducia di 179 parlamentari su 300. Il secondo caso riguarda la Spagna tra il 2015 e il 2016. Le prime elezioni si tennero il 20 dicembre 2015. Si affermò il Partito Popolare di Mariano Rajoy (centrodestra) con il 28,7% dei consensi, pari a 123 seggi (ne servivano 176 per la maggioranza). I socialisti arrivarono secondi con il 22% ma la sorpresa delle elezioni, anche in questo caso, fu l'affermazione della sinistra radicale di Podemos, con il 20% circa. L'unica strada per formare una maggioranza sarebbe stata un governo di larghe intese con centrodestra e centrosinistra. Ma i socialisti furono irremovibili. Così, dopo mesi di negoziazione inutile si prese atto dello stallo e si ritornò al voto il 26 giugno 2016. I Popolari salirono al 33% guadagnando circa 4,5 punti e 14 seggi. I socialisti confermarono il risultato di sei mesi prima mentre Podemos, nonostante l'alleanza con altre forze (comunisti e indipendentisti catalani) non riuscì a migliorare il dato della precedente elezione. L'affluenza, esattamente come avvenuto in Grecia, diminuì di circa tre punti percentuali. Anche in questo caso è importante citare il contesto storico-economico. Appena tre giorni prima del voto spagnolo, il 23 giugno, si era tenuto in Gran Bretagna il referendum sulla Brexit, vinto a sorpresa dal "Leave". Il risultato delle urne a Madrid venne visto come l'ennesimo banco di prova per un'Unione europea in una fase di grande impopolarità. E' possibile che il mancato successo di Podemos sia stato in qualche modo condizionato anche dal timore degli spagnoli "europeisti" di dare troppa forza a un partito che proponeva l'uscita dall'Unione. Come che sia, neppure l'avanzata del Partito Popolare riuscì a determinare numeri sufficienti per la formazione di un governo. Ad evitare lo stallo fu la decisione del Partito Socialista di astenersi al momento della votazione della fiducia al governo Rajoy, che superò le colonne d'Ercole con 170 voti (sei in meno della maggioranza assoluta del Parlamento) e diede vita a una sorta di governo di minoranza. Altrimenti detto della "non sfiducia". Cosa ci insegnano queste due esperienze? Innanzitutto il calo dell'affluenza. Tornare al voto, magari con la stessa legge elettorale, non serve a galvanizzare chi nella prima occasione è rimasto a casa. Anzi, fa aumentare ulteriormente il popolo dell'astensione. In secondo luogo, in entrambi i casi la ripetizione delle elezioni ha dato più forza al partito che nella prima occasione si era avvicinato di più alla maggioranza. Non si tratta dell'effetto "carro del vincitore", piuttosto del desiderio di stabilità del corpo elettorale dopo settimane (o mesi) di assenza di guida per il Paese. Infine, i movimenti antisistema che in un primo caso sembrano a un passo dal conquistare il potere, vengono ridimensionati nelle elezioni successive. In che modo questo potrebbe rispecchiarsi nel caso italiano? Non è facile a dirsi, perché il 4 marzo si sfideranno partiti che corrono da soli (il MoVimento 5 Stelle) e coalizioni (centrodestra e centrosinistra). Il partito che arriverà primo, insomma, potrebbe non essere quello che alla fine sarà a meno seggi dalla maggioranza. Non solo: ad arrivare primo, per lo meno come partito, potrebbe essere la forza maggiormente anti-sistema, il MoVimento 5 Stelle. Un suo successo, visti i precedenti greco e spagnolo, potrebbe finire con lo spaventare l'elettorato. Certo, il contesto storico-economico non è né quello di Atene nel 2012 né quello post-Brexit dell'estate 2016, ma siamo sicuri che non possa diventarlo in poche settimane in caso di instabilità? Un avviso, da questo punto di vista, è stato già recapitato dall'incauta dichiarazione - poi ritrattata - di Jean Claude Juncker, che ha parlato di "scenario peggiore in Italia con un governo non operativo" e ha subito dato uno scossone ai mercati. Se invece considerassimo assimilabili ai primi partiti le coalizioni, in quel caso a giovare del ritorno alle urne sarebbe presumibilmente il centrodestra. Che, però, non è del tutto simile ai partiti di Samaras e Rajoy vista la presenza di forze più o meno anti-europeiste come Lega Nord e Fratelli d'Italia. Il dato che però tutte le forze politiche dovrebbero tenere a mente è che né in Grecia né in Spagna il ritorno alle urne, pur rafforzando i partiti con più consenso, è bastato a dare una maggioranza di governo coerente ai Paesi. Più che i rapporti di forza, infatti, è cambiata la predisposizione dei partiti. In Grecia i socialisti hanno accettato di governare con Samaras, in Spagna si sono astenuti dal voto di fiducia pur di dare via libera al governo di Rajoy. Larghe intese, insomma, quelle che si sarebbero potute varare già dopo il primo voto. Di fronte a questa prospettiva, la domanda nasce spontanea: perché rinviare l'inevitabile?

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