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Quarant'anni dopo la legge sull'aborto continua la guerra tra obiettori e diritto delle donne

La normativa varata il 22 maggio 1978 venne confermata da un referendum nel 1981

Valentina Pelliccia
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di Valentina Pelliccia

La legge italiana sull'aborto compie 40 anni. Era il 22 maggio 1978 quando venne approvata la legge 194, poi confermata da un referendum nel 1981, intitolata "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza". Per aborto si intende qualsiasi interruzione della gravidanza prima del suo termine fisiologico (nove mesi), cioè prima che l’embrione sia in grado di condurre una vita extrauterina sia che essa avvenga spontaneamente sia volontariamente. Per comprendere l'impatto di questa legge bisogna ricordare come negli anni '60 modelli culturali radicati nella società italiana imponessero la maternità come principale realizzazione della donna e come fosse diffusa l'ignoranza dei più elementari servizi sociali, sanitari e di assistenza al parto. Questo, il quadro sociale che, su denuncia dell'Unesco, ha permesso un milione e mezzo di aborti clandestini agli inizi degli anni '70 con l'aiuto di medici compiacenti o delle "mammane" conosciute, e per le donne più povere e senza mezzi, di dover ricorrere da sole a pratiche pericolose (ferri da calza). Non si conosce il numero di donne morte per emorragie e complicanze successive. Inoltre, l'interruzione volontaria di gravidanza era punibile come reato dal Codice Penale. La legge, presentata nel 1971 dal PSI, ha avuto un iter difficile con ben 35 ricorsi di incostituzionalità prima di essere approvata. Con la legge 194 del 1978, l'interruzione di gravidanza è stata riconosciuta come una pratica legale, consentita entro i primi 90 giorni, in base all'art 4, in situazioni di "serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito". "Dopo i primi 90 giorni, può essere praticata quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art 6)." Facendo riferimento al rapporto sull'Ivg ( interruzione volontaria di gravidanza) presentato dal Ministro Lorenzin nel mese di dicembre dello scorso anno, in Italia il numero di aborti nel complesso è in calo: nel 2015 gli interventi sono stati 84.925, mentre nel 1983 erano stati 234.801. Il tasso di abortività per mille donne tra i 15 e i 49 anni è stato del 6,6 per mille nel 2015, quasi un decimo in meno rispetto al 2014 e più che dimezzato rispetto al 1983. La diminuzione del numero degli aborti in Italia è dovuto a diversi fattori, in particolare a tassi più alti d'istruzione e a una maggiore diffusione dell'educazione sessuale e della contraccezione. Ad influire su tale cambiamento poi, fattore importante, è stata l'introduzione di pratiche alternative all'aborto chirurgico, e cioè della pillola RU 486 del 2009, e quella dei 3 o 5 giorni dopo (2015). La prima, da prendere nei primi 49 giorni è un farmaco abortivo che blocca lo sviluppo embrionale, le seconde sono farmaci non abortivi che bloccano o ritardano l'ovulazione e sono disponibili in farmacia senza ricetta medica (purché si sia maggiorenni). Ma fattore "scatenante" di questo processo è stata la reale difficoltà nel trovare medici non obiettori di coscienza disposti a praticare l'aborto chirurgico su tutto il territorio nazionale, come hanno più volte denunciato sia le stesse strutture sanitarie, sia le associazioni come la Laiga, la Libera Associazione Italiana Ginecologi per l'applicazione dell'Aborto. Infatti, se da un lato la legge italiana sull'aborto è considerata tra le più sicure e meno restrittive al mondo, dall'altro, sull'applicazione di questa sul territorio nazionale sussistono gravi difficoltà. Sebbene la legge imponga l'obbligo legale alle autorità di garantire alle donne l'accesso ai servizi sanitari, troppo esiguo e insufficiente è il numero di personale non obiettore in molte regioni e strutture. L'obiezione di coscienza sull'interruzione volontaria di gravidanza  infatti è regolata dall'articolo 9 della legge 194 del 1978 che prevede la possibilità, per il medico e il personale sanitario, di rifiutarsi di effettuare un'interruzione volontaria di gravidanza e quindi di sollevare un'obiezione di coscienza. "La dichiarazione dell'obiettore - precisa la norma - deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dell'ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall'entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento dell'abilitazione o dall'assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette all'interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l'esecuzione di tali prestazioni". L'articolo 9 stabilisce che l'obiezione possa essere sempre revocata. Questa facoltà non esenta il professionista dall'assistenza "antecedente o conseguente all'intervento" e decade automaticamente in caso di situazione rischiosa per la vita della paziente. I ginecologi obiettori che non praticano l'Ivg in Italia sono circa il 70%, con punte del 90% in Molise, Basilicata e Trentino Alto Adige.( In Gran Bretagna è del 10%, in Francia del 7%, nessuno in Svezia). Per sopperire alla mancanza dei medici in grado di eseguire le interruzioni volontarie di gravidanza, gli ospedali debbono ricorrere a medici esterni. Per questo motivo, il Tribunale Europeo per i Diritti civili ha richiamato l'Italia, più volte, nel 2014 e nel 2016 ad eliminare le difficoltà dovute all'obiezione di coscienza. Certamente l'aborto è una esperienza dolorosa per qualunque donna. A quella fisica si accompagna il senso di vergogna e di intimità violata, comunque di sconfitta. Per questo, la legge 194/78, dai più considerata giusta, va attuata concretamente per proteggere realmente le donne in difficoltà ed evitare le morti che tuttora seguono ad aborti effettuati nella clandestinità.  

 

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