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La globalizzazione non si ferma. O la si governa o saranno guai

Quando esplodono le grandi crisi della storia il primo istinto di ogni popolo è quello di alzare muri

Denis Verdini
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Quando esplodono le grandi crisi della storia il primo istinto di ogni popolo è quello di rinchiudersi nel suo piccolo mondo antico, di alzare muri, di mettersi al riparo nel guscio. È un riflesso naturale, quasi biologico. Come i luddisti che temevano gli effetti della Rivoluzione industriale, insomma, oggi il cittadino medio ha paura della dissoluzione del suo mondo naturale.  Oggi questo si chiama sovranismo, un termine che riassume molto bene quel sentimento trasversale che ha portato metà degli elettori italiani a votare per due partiti molto diversi ma sostanzialmente, appunto, sovranisti. Una narrazione che gode di un consenso molto più ampio nel Paese di quello espresso nelle urne, per cui, secondo la Swg, oggi il 75 per cento degli italiani approva le politiche del governo giallo-verde, evidentemente a trazione leghista, visto che come primo atto ha lanciato una sfida a 360 gradi contro l'immigrazione e contro l'Europa. È impopolare, in questo momento, rispondere a chi sostiene che basterebbe uscire dall'euro per risolvere i problemi economici e che i nemici da sconfiggere sono l'immigrazione, le élites tecnocratiche e la moneta comune, che la loro è una diagnosi sbagliata, che non è ritirandosi dentro i propri confini che si possono affrontare le sfide della globalizzazione, che l'Europa è una costruzione rimasta a metà ma che va completata e non distrutta. Però bisogna sforzarsi di ragionare partendo prima di tutto da un dato di fatto incontrovertibile: la globalizzazione ha aperto nuovi mercati, ha sollevato dalla povertà una parte del mondo, e anche se ha fallito come strumento occidentale di esportazione della democrazia - perché la democrazia, come ha scritto Oriana Fallaci, non è un cioccolatino o un hamburger di McDonald's - resta comunque un fenomeno che nessuno è più in grado di fermare: sarebbe come fare la guerra ai missili nucleari con la cerbottana. Siamo o non siamo dentro fino al collo al villaggio globale? Anche il più accanito sovranista ogni giorno apre il suo computer e naviga su internet, per cui le distanze si sono annullate, i mercati finanziari prosperano e fibrillano in tempo reale, le economie sono sempre più interdipendenti, i nostri ragazzi sono sempre più europei, viaggiano e studiano con Erasmus e parlano sempre di più la stessa lingua. Abbiamo (quasi) tutti accolto il buono della globalizzazione, che è figlia della tecnologia che ci ha cambiato in meglio la vita. E l'immigrazione, volenti o nolenti, è una diretta conseguenza della globalizzazione, è anch'essa un movimento globale, che si può governare ma non certo fermare. I barconi pieni di disperati non sono Annibale che passa le Alpi con i cartaginesi, ma semplicemente il sintomo di un mondo in subbuglio. Tutte le globalizzazioni, lo insegna la storia, portano con sé massicci movimenti migratori: accadde alla fine dell'Impero romano, è successo nel XVI e nel XIX secolo. E nulla come le migrazioni porta con sé la percezione di un mondo che si disgrega. Per cui le paure sono umanissime e giustificate, ma anch'esse andrebbero meglio governate e non solo cavalcate elettoralmente. C'è poi un nesso inscindibile tra l'immigrazione e i due grandi fenomeni che caratterizzano la crisi della globalizzazione, ossia il populismo originato dalle paure e dai disagi del popolo e quello di matrice nazionalista, protezionista e dunque sovranista che risponde alla richiesta di protezione dei confini. Dovere della politica sarebbe guardare avanti, oltre l'interesse contingente e oltre le apparenti convenienze dell'oggi. La domanda che tutti dovremmo porci è: quale mondo dobbiamo consegnare ai nostri figli e ai nostri nipoti? C'è una stima del Fondo monetario sulle dinamiche future delle prime dieci economie del mondo che è una sorta di bomba a orologeria: quest'anno tra esse figurano - nell'ordine - quattro Paesi europei, ossia Germania, Regno Unito, Francia e Italia. Ma nel 2050 fra le prime dieci, e all'ultimo posto, resterà solo la Germania, superata anche dalla Nigeria. Ci vuol poco a capire che solo un'Europa sempre più integrata sarà in grado di reggere la concorrenza economica degli ex Paesi in via di sviluppo. A questo dato, che prefigura un arretramento storico del Vecchio Continente, in cui per inciso si sviluppò la civiltà industrializzata, ne va aggiunto un altro ugualmente significativo, fornito questa volta dai demografi: nel 2050 la popolazione della Germania diminuirà dal 16 al 17 per cento, quindi decine di milioni di persone, mentre la popolazione della Nigeria crescerà del 121 per cento, un aumen- to vertiginoso che spiega molte cose. Non solo: nei prossimi decenni nel continente africano avremo sicuramente un raddoppio complessivo della popolazione a Sud del Sahara (circa un miliardo di persone). Questo per dire che chi soltanto immagina di fermare l'immigrazione con i muri e con i fili spinati è un visionario come chi si illude di svuotare il Mediterraneo con un cucchiaino. Ho letto una dichiarazione di Di Battista, interprete autentico del grillismo duro e puro, secondo cui «il futuro degli africani è in Africa»: un auspicio che tutti potremmo e vorremmo sottoscrivere, solo che per costringere milioni di persone a rinunciare alla ricerca - a nord, e dove se no? - del loro spazio vitale non basta uno slogan da ratificare sul web. La realtà, come ho cercato di spiegare, è molto più complessa: l'Occidente, dopo la lunga fase coloniale, ha di fatto abbandonato l'Africa al suo destino - mentre la Cina se la sta comprando - e se davvero vuol convincere gli africani a non emigrare deve progettare  investimenti ciclopici per creare infrastrutture e lavoro, senza dimenticare il fattore climatico che è un altro elemento cruciale dell'emigrazione. Per quanto riguarda l'Italia, bloccando l'immigrazione entro il 2060 la nostra popolazione scenderebbe da 60 a 46-47 milioni circa di abitanti. Dunque potremmo anche pensare che così staremmo più larghi. Di fatto, però, nel passaggio tra il 2015 e il 2060 cresceranno soprattutto i cosiddetti grandi vecchi, che saranno quattro milioni in più, ovvero il 30 per cento della popolazione. Che conclusioni dobbiamo trarre? La prima è che globalizzazione e immigrazione sono due facce della stessa medaglia, e che se la prima va inevitabilmente avanti, l'altra è destinata a consolidarsi come fenomeno strutturale e non emergenziale. L'accoglienza dei profughi è una questione umanitaria che bisognerebbe però governare con il criterio della convenienza e con regole certe e armonizzate a livello europeo. Anche perché, per dirla brutalmente, gli immigrati serviranno a pagare le pensioni degli anziani europei e italiani e a mantenere in piedi quel che resta del nostro welfare. Nella consapevolezza, però, che l'immigrazione, se non controllata, porta però alla creazione di una serie di ghetti etnici, confessionali e identitari dove ci sono fette di popolazioni immigrate che percepiscono se stesse come antagoniste e nemiche del resto della società, come sta purtroppo accadendo in Olanda, in Francia nelle banlieues e in Gran Bretagna. Dunque l'immigrazione non si può governare con le parole d'ordine, ma rafforzando la coesione europea, perché se tornasse l'Europa frazionata dei piccoli o grandi Stati, il mondo del domani la stritolerebbe. E stritolerebbe prima di tutto noi, che siamo il suo avamposto sulla frontiera africana. 

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