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Buttiamo i soldi in Grecia ma non tagliamo le tasse

Grecia a rischio default, manifestazioni nel paese

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Domandina: dove vanno a finire i miliardi che stiamo prestando alla Grecia? Forse sarebbe il caso che la questione non restasse nel chiuso dei piani alti di Bruxelles: tanto più ora che l'Unione europea ha deciso una seconda tranche di aiuti da 60-70 miliardi, in aggiunta ai 110 del maggio 2010 che a quanto pare non sono serviti a molto visto che Moody's ha appena declassato di tre gradini, da B1 a Caa1 il rating di Atene, e con outlook negativo. I contribuenti tedeschi, per esempio, vogliono conoscere che fine fanno i loro soldi, e da oltre un anno su questa storia della Grecia bastonano ad ogni elezione il governo, in barba a tutte le strabilianti performance economiche di Angela Merkel. E noi? Noi che siamo il Paese più euro-entusiasta, che cosa sappiamo dei quattrini che prendono la via del Pireo? Il Tempo può fornire una prima risposta, certo parziale, ma illuminante. Nelle settimane scorse una missione del Tesoro italiano è andata riservatamente ad Atene per capire se ci sono speranze che il piano di austerity del governo socialista di George Papandreu riesca a produrre frutti, e quindi se la nostra quota del meccanismo di solidarietà potrà tornare all'ovile, e quando. E ha accertato alcune realtà finora confinate ad indiscrezioni giornalistiche per il pubblico americano. Su tutte, questa che vi giriamo: le Ferrovie greche, ovviamente pubbliche, pagano i dipendenti una media di 80 mila dollari l'anno, circa 50 mila euro. Stipendi che per i macchinisti, specie quelli impegnati sulle linee «disagiate» come il Peloponneso, arrivano a 138 mila dollari, 84 mila euro. Tenuto conto della pressione fiscale e contributiva che in Grecia è pari al 37 per cento, sei punti meno che da noi, i macchinisti greci si portano a casa mediamente 4 mila euro netti, per 14 mensilità. Il 30 per cento abbondante più di un macchinista italiano al massimo di anzianità e orario di lavoro. Mentre l'impiegato comune percepisce intorno ai 2.300 euro, sempre per 14 mensilità, circa mille euro netti più di un collega italiano. Ma anche francese o tedesco, considerando che i macchinisti tedeschi hanno appena indetto una dura vertenza contro la Deutsche Bahn chiedendo di aumentare lo stipendio medio attualmente di 2.200 euro; mentre un conduttore di un Tgv francese arriva a 3 mila. Ovviamente non è tutto. Nelle ferrovie greche il costo del lavoro è pari a quattro volte il fatturato aziendale, il che ha prodotto fino al 2009 un debito consolidato di circa 9 miliardi di euro ed un disavanzo di gestione annuo di 800 milioni. Con gli interessi, si tratta di una perdita di quasi 3 milioni di euro al giorno. E il famoso piano di austerity? Il governo ha annunciato tagli sulla quattordicesima e sulle pensioni: già, perché lì i dipendenti pubblici possono lasciare il lavoro a 53 anni. Ma il tutto si scontra con le rivolte di piazza. Già nel 2009, alle prime avvisaglie di crisi, il governo allora in carica manifestò un timido interesse per una parziale privatizzazione del sistema ferroviario. Si fece avanti, sempre molto timidamente, la Cncf, le ferrovie francesi, cui era stata prospettata la vendita del 49 per cento. Partì da New York una delegazione della Goldman Sachs e della Morgan Stanley. La reazione fu la stessa, inorridita, di quella del Tesoro italiano. Vennero suggeriti drastici piani di ristrutturazione per ridurre i costi e adeguare gli standard alla imminente concorrenza europea. I politici spiegarono però che era un anno di elezioni e davvero non era il caso di mettersi contro quella potentissima corporazione. Francesi e banchieri misero giù il coperchio e se ne tornarono a casa. Nel luglio 2010 il New York Times dedicò alla faccenda dei ferrovieri greci un'inchiesta, chiedendosi, con questi dati di fatto, quali probabilità avesse Atene di sanare il proprio dissesto e rimborsare i crediti appena ottenuti dall'Europa. La risposta è arrivata in questi giorni: la Grecia ha bisogno (e li ottiene) di nuovi aiuti dai paesi partner, tra i quali noi, mentre i tassi d'interesse sui titoli pubblici sono più che raddoppiati, dall'otto per cento ad oltre il 16. Ovviamente Papandreu e i suoi ministri si impegnano a «drastici tagli» e ambiziose privatizzazioni: adesso per esempio si discute della compagnia telefonica Ote, delle aziende dell'acqua di Atene e Salonicco, del ramo bancario delle poste. Grava invece la nebbia più fitta su quale sorte avranno i prestiti. Gli esperti di tutto il mondo, soprattutto anglosassoni, si dicono convinti che la Grecia sia già tecnicamente in default, e che le uniche soluzioni possibili restino o il ritorno alla dracma o una sorta di commissariamento sul tipo di quello imposto a suo tempo dal Fondo monetario all'Argentina. Eppure queste proposte, come del resto la più indolore ristrutturazione del debito, vengono bollate come pura eresia dai sommi euroburocrati di Bruxelles e Francoforte. Che il motivo stia nel piccolo particolare che le banche francesi risultano tuttora esposte in Grecia per 53 miliardi e quelle tedesche per 34? Fatto sta che all'Italia questo nuovo aiuto costerà 5,25 miliardi di euro, che si aggiungono ai 14,72 erogati un anno fa. In totale, alla sola Grecia, noi prestiamo oltre 20 miliardi, cioè 340 euro per ogni cittadino italiano dai neonati ai centenari. Ai quali vanno sommati i 13 destinati a Portogallo e Irlanda. Mentre è tuttora oggetto di discussione in che misura queste somme vadano ad aggravare in nostro debito pubblico, già in bilico e fonte di ogni problema (a cominciare dalle tasse) per noi. Non per i ferrovieri greci.

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