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Lo sfogo di Menia «No alla liquefazione»

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Per questo Fini ha sempre guardato Menia con un occhio particolare e Menia non è stato solo fedele ma è anche uno dei pochi che può permettersi di dirgli in faccia quello che pensa senza tanti giri di parole. È già ora di pranzo quando Robertone, polo nera e pantaloni chiari, sale sul palco e con voce pacata, ferma, prende la parola con una premessa che non lascia dubbi: «Ci siamo incamminati, ma il modo in cui si cammina non mi convince. Manca di chiarezza, vitalità, slancio, proposta, passione, politica. Manca di sogno, di entusiasmo. E per capirlo basta guardare questa sala». E in quella sala c'è una platea strana. Che ha i suoi simboli e i suoi comportamenti. Gli applausi sono di circostanza, il silenzio vale come approvazione, se si mugnugna non si condivide. Così quando il giovane sottosegretario attacca a parlare si vocifera, ma dopo le prime parole cala il silenzio. Al tavolo di presidenza Gasparri gigioneggia con il cellulare, La Russa fa finta di nulla e a tratti chiacchiera con il vicino e sorride. Ronchi se ne sta in disparte, Bocchino si va a sedere in prima fila. Menia va avanti. E il suo è un duro atto di accusa: «Non credo che sia soltanto una sensazione personale, privata. Credo che rispecchi quello che molti sentono ma non dicono. La percezione è quella di uno "sciogliete le righe", e già vedo piccoli personaggi in cerca d'autore correre in sede locale alla corte dell'alleato maggiore per precostituirsi una posizione. È patetico». Quindi avverte: «A questo tesseramento pochi ci credono e se ne chiedono il senso». «Nessuno venga a dirmi che non ho capito dove stiamo andando. L'ho capito benissimo - spiega con quell'accento tipicamente giuliano -. Ma io non credo ai partiti leggeri, credo a quelli pesanti, fatti di uomini, di fede e di idee senza i quali nessuno di noi sarebbe dove oggi è. Neppure io, che sono al governo e sono un beneficiato. Ma non possiamo far credere alla nostra gente che non abbiamo più bisogno di loro, che abbandoniamo il nostro popolo per scegliere la più facile strada di un accordo di potere. L'unità di facciata non è obbligatoria. E io non voglio un congresso di nominati, senza dibattito, in cui si finirà per gridare "viva il parroco"». «Non voglio - aggiunge - magari anche ulteriori rendite di posizione, ma in un quadro di minoranza. Non vorrei vedere il nostro patrimonio di uomini e di idee liquefarsi, non vorrei vedere Fini in futuro magari anche in posizioni ancora più alte ma come un generale senza esercito». Per Menia «non c'è l'effervescenza e l'entusiasmo di Fiuggi. Che garanzie ho in un partito tutto a nomina regia, per almeno due anni? Quale libertà ho in un Parlamento nominato? Senza la nomina, più di qualcuno non sarebbe mai entrato in Parlamento. Ed è sbagliatissimo che a novembre si pensi alla "nomina pontificia" anche per le Europee». La conclusione è lapidaria: «Io non vorrei magari anche ulteriori rendite di posizione, ma in un quadro di minoranza. Non vorrei vedere il nostro patrimonio di uomini e di idee liquefarsi, non vorrei vedere Fini in futuro magari anche in posizioni ancora più alte ma come un generale senza esercito». Spetta a La Russa metterci una pezza non prima di aver sottolineato che «Menia è uno dei miei migliori amici»: «Io non ho paura che Fini diventi un generale senza esercito. Questo rischio non esiste. Sarebbe senza esercito se il numero di disertori fosse alto, invece non ce n'è neppure uno. Neanche tu Roberto». E ancora: «Non metteremo bandierine, ma coinvolgeremo nel percorso verso il Pdl militanti di base ed iscritti. Ci sarà dibattito ed io assicuro che l'identità di An sarà portata fino all'ultima briciola, dentro al Pdl. Non se ne perderà neppure un granellino. Avevo detto che non saremmo stati ospiti in casa d'altri e non sto qui a fare il reggente per nulla, Garantirò questo». F. d. O.

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