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A Fini di lucro

Gianfranco Fini

Gian Marco Chiocci
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La vicenda triste di Fini e della casa di Montecarlo addolora per gli esiti catastrofici di una vicenda umana e il dilaniarsi (anche postumo) della leadership che fu, affacciata ormai sull'abisso della storia. Caderci dentro ha un effetto drammatico: al posto di essere un esempio da ricordare diventa un caso di scuola da evitare. Non riusciamo a godere delle disgrazie dell'ex presidente della Camera nemmeno al ricordo delle invettive sue e di quanti - giornalisti e politici - gli leccavano il didietro nella caccia alle streghe della macchina del fango berlusconiana. Oggi come ieri solo interessa chiarire i dettagli di un affaire politico-immobiliare che ha portato al sequestro di un milione di euro (in polizze assicurative) all'indagato in disgrazia, lo stesso che venne archiviato a razzo quando tramava contro il Cav, l'uomo che ha distrutto la destra e poi se stesso. La motivazione è un pugno allo stomaco: fu Fini a decidere la vendita della casa di Montecarlo poi finita alle società off shore di Corallo riconducibili al cognato latitante Giancarlo Tulliani e ad Elisabetta, la sua donna. Una vendita a un prezzo tre volte inferiore del valore di mercato, che poteva fruttare anche un milione di euro se il partito avesse dato retta alla proposta del commercialista Apolloni Ghetti (pure il senatore Caruso offrì 800mila euro) e che a costo zero per i Tullianos alla fine procurò loro un incasso pulito da un milione e tre. Fini si professa innocente, e speriamo abbia ragione. Ma ha mentito sempre, su tutto, sulla cucina, sui suoi viaggi nel Principato, sui testimoni, su Giancarlo ed Elisabetta in rue Princesse Charlotte. Ha mentito in tv agli italiani. Ha mentito - stando al gip - sui rapporti con Corallo dal quale andava in vacanza. Per salvare se stesso è arrivato a darsi pubblicamente del coglione, scaricando sul cognato latitante, dicendosi vittima di un ingranaggio messo in piedi alle sue spalle quando le indagini sembrano descriverlo come una componente decisiva di esso. Lucrare sui beni del partito, sulla fiducia di una militante defunta, sulla pazienza degli elettori è la nemesi peggiore per un politico che aveva la presunzione di farsi portabandiera del lascito, anche morale, della destra italiana novecentesca. Se sono stati commessi reati penali, lo accerteranno i tribunali. Noi abbiamo fatto il nostro, scoprendo lo scandalo e venendo premiati per 7 anni con sputi e insulti. Adesso il suo lo faccia Fini. Se a causa del sequestro oggi non può restituire i proventi della svendita, tiri fuori i cosiddetti, chiami Vespa e porga le scuse a chi ha creduto in lui. Che almeno l'ultimo passo prima dell'abisso, attendendo inimmaginabili esiti di presunti riciclaggi, comprovati familismi e deliri di ogni potenza, sia preceduto da un minimo di ritrovato onore.

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