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La guerra al maschio si studia all'Università

Pietro De Leo
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Certe cose appaiono così surreali da non sembrare gravi come in realtà sono. Così negli Stati Uniti accade che la guerra al maschio, con una certa disinvoltura, diventi materia di studio all'università. Sta infatti per partire nell'Ohio State University un corso in cui si proverà a dimostrare perché “la virilità eterosessuale bianca è presumibilmente problematica”, così annuncia un sito di news (“The College fix”) che riguardano il mondo universitario. Il corso si proporrà di analizzare la questione maschile dal punto di vista della cultura pop, del bullismo, e delle questioni razziali. Ma ad essere significativo è la sorta di piano di studi proposto agli studenti. Testi come “Dude, You're a fag!” (che letteralmente significa “Amico, sei un frocio!”) di C.J. Pascoe oppure “Masculinity as Homophobia” (Mascolinità come omofobia”) di Michael Kimmel. E non manca la proiezione del famoso film “Priscilla, la regina del Deserto”, film cult degli anni '90 che esplora la psiche di tre transessuali in viaggio nelle terre remote australiane a bordo di un furgone. Insomma, l'operazione è chiara: collegare la rivendicazione dell'identità maschile, con l'aggravante del colore bianco della pelle (ma non era Trump, il grande razzista?), come potenzialmente pericolosa, foriera di omofobia e violenza. Basti pensare, si legge nel programma del corso, alla “terra sottratta con forza ai nativi americani”. Il tema della minaccia in pantaloni è molto gettonato negli Atenei americani e qualche mese fa, ad esempio, nel Wisconsin è stato attivato un programma di sei settimane sempre per contrastare “gli effetti negativi della mascolinità sulla società”, e creare un senso di “sicurezza nella vulnerabilità”, ossia convincere gli uomini ad adagiarsi nelle proprie debolezze. Dunque, l'offensiva su larga scala per criminalizzare l'identità maschile, facendo leva sulle giovani generazioni, è in corso. E il livello più alto lo si è avuto probabilmente in Canada. Dove lo scorso anno, per tre giorni, l'Università di Regina ha istallato un “Confessionale della mascolinità”. Una cabina dove gli studenti potevano andare a confessare i propri “peccati di ipermascolinità”. E l'interlocutore non era uno psicologo, ma un altro ragazzo qualunque, collega d'Ateneo con il quale scambiarsi le proprie esperienze e confrontarsi sui i propri peccati. A volto coperto, perché almeno, nella terra del super liberal Justin Trudeau, la privacy viene garantita. La docente che aveva ideato questa genialata del confessionale, che insegna kinesiologia (cioè lo studio dei movimenti del corpo) nell'università, aveva detto illustrando l'iniziativa che “se qualcosa non va nelle tue relazioni e reagisci con rabbia, questa può sfociare nella violenza”. Insomma, sei leggermente "incazzoso"? Potresti essere un potenziale stupratore oppure picchiatore di omosessuali. È prudente dunque reprimere la propria esuberanza, qualsiasi tendenza alla dominanza, per mantenersi a distanza di sicurezza dal tribunale inflessibile del politicamente corretto. Perciò a questo punto è meglio partecipare a cose come il progetto “Man Up Against Violence”, sempre in Canada, altra campagna di sensibilizzazione contro la violenza che utilizzava cose tipo foto di uomini che piangono per invitare a non nascondere le proprie debolezze. Ecco, dunque, qual è l'obiettivo del prodotto finito: l'homo piagnens. E allora tornano a mente le parole di Eric Zemmour, intellettuale francese, quando in un suo pamphlet molto discusso punta il dito contro la “femminizzazione degli uomini”, e cioè la “frankesteiniana fabbricazione di un uomo senza radici né razza, senza frontiere né paesi, senza sesso né identità. Un cittadino del mondo meticciato e asessuato. Un uomo campato in aria”. Fotografia di un rischio che già morde. Eccome.

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