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Conti pubblici "inquinati" ma non è colpa dei mega-dirigenti

Derivati e finanza tossica

Filippo Caleri
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Ci sono costati miliardi di euro. I derivati hanno infettato i conti pubblici italiani, le clausole capestro sono scattate a richiesta delle banche d'affari internazionali che hanno spinto un bottone, e hanno costretto lo Stato italiano a sborsare soldi senza poter fiatare. Una trappola legale per la quale non pagherà nessuno. I contratti derivatì stipulati dal Tesoro erano legittimi e le scelte compiute dai dirigenti del Mef sono «giustificabili». A dirlo è la sentenza con cui la Corte dei Conti ha chiuso il caso derivati assolvendo Morgan Stanley e alcuni dirigenti del Tesoro, compresi gli ex ministri Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco e l'ex dirigente del debito pubblico Maria Cannata. Il processo, con cui la procura contabile chiedeva la restituzione nelle casse dello Stato di 3,9 miliardi di euro (di cui uno in capo alla sola Cannata) si era aperto il 19 aprile scorso, ma la Corte ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, accettando di fatto la richiesta dei legali dell'istituto americano e degli altri imputati.  Nel mirino c'era l'inserimento nel contratto con la banca di una specifica clausola di uscita anticipata dai Derivati, la cosiddetta Ate Additional termination event  che consentiva a Morgan Stanley di ottenere 3,1 miliardi di euro. Il tutto a fine 2011, proprio nel momento di maggiore difficoltà economica e finanziaria del Paese con la  gestione di Palazzo Chigi passata a Mario Monti. Il Tesoro si è difeso spiegando che un netto niet a Morgan Stanley avrebbe provocato la devastazione del mercato finanziario e l'istantanea perdita di fiducia degli operatori nella Repubblica italiana. Insomma nessun colpevole.  «Non si può ritenere che la stipulazione dei contratti derivati in contestazione integri gli estremi di una violazione di legge - sottolinea la Corte - né si può ritenere sussistente una forma di eccesso di potere». I magistrati contabili, «pur ammettendo, nonostante le contestazioni dei convenuti che escludono addirittura l'esistenza di un danno, che l'attività in derivati, oggetto del presente giudizio, abbia arrecato una perdita patrimoniale per la pubblica amministrazione con la conseguenza che, se quei contratti non fossero stati stipulati, sarebbe stato evitato un ingente esborso di denaro pubblico e che le operazioni in contestazione sono risultate non convenienti» osservano, tuttavia, «che la valutazione della congruità del mezzo rispetto al fine deve essere effettuata non ex post, ma ex ante. Occorre tenere conto, cioè - spiegano - dell'insieme delle circostanze, del contesto storico, economico e finanziario, nel quale le scelte operate dall'amministrazione si vanno a inserire. In quel contesto si manifesta l'esigenza di gestione e ristrutturazione del debito pubblico, nel quadro di una valutazione che contempla l'obiettivo della minimizzazione del costo del debito perseguito compatibilmente con l'esigenza di protezione dai rischi di mercato e di rifinanziamento, nonché del buon funzionamento del mercato secondario dei titoli di Stato». In conclusione «il comportamento dei convenuti, per le conseguenze che sono derivate dalle strategie di gestione del debito pubblico, non appare irrazionale e immotivato».  che consentirebbe a questo giudice di superare il limite di insindacabilità».

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