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D'Annunzio e Marconi un pomeriggio a Centocelle nel centro radiotelegrafico

d'annunzio

Cento anni fa l'incontro tra il Vate e lo scienziato

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Un caldo pomeriggio di luglio del 1915, cento anni or sono. A Roma Gabriele D'Annunzio, tornato da tempo dall'esilio volontario francese, ad Arcachon, sull'Oceano Atlantico, dove si era trasferito per non aver noie dai creditori, è infervorato dallo spirito guerriero e dall'Italia in trincea per la I Guerra Mondiale. Il poeta, assieme ai futuristi, al loro capo Filippo Tommaso Marinetti (che proprio in quell'anno pubblicherà in italiano il suo pamphlet, "Guerra sola igiene del mondo"), all'ancora giornalista Benito Mussolini, direttore del "Popolo d'Italia", è un interventista convinto. Eppure quel pomeriggio di un luglio romano, per poche ore, lo spenderà in compagnia di un uomo che stima profondamente, l'inventore della radio Guglielmo Marconi. D'Annunzio, da instancabile curioso della vita, non ha mai nascosto di subire il fascino della meccanica e della tecnologia. Ama i velivoli, nome con cui ribattezzerà l'aeroplano, si sente pilota, adora le macchine, al punto che in un suo romanzo del 1909 "Il fuoco", l'automobile sarà tra i protagonisti, figurarsi i marchingegni di Marconi, avanguardia della ricerca. Lo fanno impazzire. Insieme, in quel pomeriggio di guerra e di calura romana, Gabriele e Guglielmo andranno alla stazione radiotelegrafica di Centocelle. Sarà lo stesso D'Annunzio, in seguito, a raccontare di quel pomeriggio trascorso tra aria di guerra ed invenzioni per la vittoria: «Guglielmo Marconi - annoterà il Vate - mi sedeva a fianco silenzioso, colla spada brunita tra le ginocchia, mentre io evocavo nella mia immaginazione l'immensa rete senza fili ch'egli aveva steso intorno al mondo, l'incommensurabile mare delle onde invisibili che proprio in quel momento si spandevano su tutto il territorio inzuppate di sangue, recando appelli e risposte, annunzi ed implorazioni di uomini, grida di pericolo, messaggi di vittorie, confessioni di sconfitte. Quelle labbra che qualche volta si aprono ad un sorriso di dolcezza e di ingenuità quasi infantile erano chiuse come dal suggello ermetico della segretezza. Gli avevo domandato: "Dimmi, mago, è vero che tu sei riuscito a vedere attraverso le pareti con una potenza di sguardo assai più acuta di quella che gli antichi attribuivano alla lince?". Ed egli si pose l'indice sulla bocca col gesto di Harpocrate, figlio della misteriosa Iside. Gli avevo domandato: "È vero, mago, che tu stai per penetrare col tuo potere anche nelle profondità dei mari e che tu hai scoperto come salvare le navi dai mezzi di distruzione subacquei?". Egli ripeté lo stesso gesto, mentre una scintilla del genio gli lampeggiò nel seno dei suoi occhi celesti. (...)». D'Annunzio, il poeta, chiama mago Marconi, l'inventore, assumendo in questo il punto di vista dell'italiano normale, cosa che lui non era, ma consacrando di fatto all'eroismo lo stesso Marconi. Sfogliando sempre dai ricordi di D'Annunzio, su quella giornata inusuale: «Tutto ad un tratto l'impiegato di servizio sussurrò, avendo riconosciuto il tono: "Un marconigramma austriaco". Il mio grande amico ed io ci scambiammo diverse occhiate, come se uno strano fremito corresse attraverso il nostro corpo, perché ambedue eravamo mossi dallo stesso pensiero, dallo stesso sentimento, dallo stesso convulso nelle vene e nel midollo, e le nostre anime eransi lasciate là alla frontiera, verso quelle terre bagnate del più puro sangue italiano, trasfigurate già dalla più alta passione italiana. O scabre Alpi di Trento; O martoriata Trieste cinta dal mare dogale; O imperiale Aquileia, desecrata troppo a lungo dai barbari; o Dalmazia stretta come l'orlo di un toga romana! Il Mago era diventato tutto ad un tratto un eroe». Nella retorica dannunziana la definizione di eroe è l'apice linguistico di un riconoscimento di stima. Il riconoscimento di un genio reciproco, di un'affinità elettiva tra lo scienziato cui risale il merito dell'invenzione e dello sviluppo delle radiocomunicazioni moderne e il poeta-scrittore-guerriero dell'"Alcyone". Cinque anni dopo, quando il Poeta-Vate per vendicare la "vittoria mutilata" dell'Italia nella I Guerra Mondiale occuperà Fiume, Guglielmo Marconi andrà a trovarlo, attraccando in porto con il suo panfilo, "Elettra" che D'Annunzio descriveva come «candida nave che navighi nel miracolo ed animi i silenzi del mondo». Arrivando a Fiume, Marconi, lancerà il suo messaggio radio: «Il mio pensiero si rivolge a te, eroe del pensiero e dell'azione, strenuo propugnatore del diritto da italiani affermato di unirsi alla patria, tenace difensore della religione di Dante e del voto di Mazzini, di Cavour e di Garibaldi».

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