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di Lidia Lombardi Plauto e la Duse, Goldoni e Petrolini.

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Ilpalcoscenico che - come diceva Shakespeare - sa di polvere e acqua di colonia ha il suo tempio in un palazzetto curioso, in via del Sudario 44. Stretto nella viuzza tra altre case, svetta a trovare il cielo con un loggiato a colonnine tortili e finestre centinate. Si chiama Burcardo, il palazzetto rinascimentale. È di proprietà della Siae, la Società Italiana Autori ed Editori, che negli anni Novanta ha sistemato qui il meglio di oggetti e memorie teatrali. Un luogo deputato per le muse Melpomene e Talia. Qui l'antica Roma aveva collocato l'enorme Teatro di Pompeo. Il colonnato d'ingresso correva sul lato lungo del palazzetto, la cavea è ricordata dalla posizione semicircolare dei piccoli edifici che gli stanno dietro. E addossato al Burcardo è uno dei muri del Teatro Argentina. Mentre a poche centinaia di metri ecco il foyer della sala tutta stucchi dorati del Teatro Valle. L'intreccio di toponimi e usi pare inestricabile nel Burcardo. Intanto, si chiama così dalla semplificazione italiana del nome del primo padrone. Un vescovo di Strasburgo, Johannes Burckardt appunto. Dall'Alsazia venne a Roma nel 1467. Fece carriera sotto quattro papi, tra i quali i mecenati-urbanisti Alessandro VI e Giulio II. Gli conveniva adeguata dimora e dunque su un terreno del monastero di Farfa, preso in affitto con l'edificio medievale in rovina, fece costruire tra il 1491 e il 1500 la sua casa. Vi inglobò un'antica torre. E la chiamò Argentina così come lui si firmava episcopus argentinensis, omaggio alla sua Strasburgo ricca di miniere del prezioso metallo. I successivi proprietari, i Cesarini Sforza, nel Settecento buttarono giù parte del palazzetto e mozzarono la Torre. Le demolizioni dovevano far posto al Teatro Argentina. E così della torre che dà il nome a una tra le più allegre piazze capitoline non resta che un tratto della scala interna e tre piccoli vani quadrati con nicchie incorniciate di peperino. Le possiamo vedere proprio entrando nel Museo del Burcardo, assegnato dal 1929 alla Siae. Giovanna Aloisi, la bibliotecaria (una raccolta di 50 mila volumi, 5 mila copioni e 400 periodici) conduce i visitatori nei sotterranei. Ecco la scala stretta della torre, una vasca e un pozzo («nell'alto medioevo pare che ci fosse qui una conceria»), un discendente per le acque fluviali, un muro con nicchia «forse collegato col Vaticano». I tre piani di sopra sono una summa dell'arte dell'attore. I costumi svariano da quelli indossati da Marcello Moretti, storico Arlecchino per Strehler, alla tuba, guanti e cappello di Gastone-Petrolini (ma di Ettore ci sono pure gli abiti di Nerone e di Fortunello) alle piume e lustrini della Fugez. Burattini e marionette cinesi, il manoscritto pirandelliano di Liolà, la lettera di Alfieri a Luigi XVI pochi giorni prima della Bastiglia, locandine, foto riempiono stanze con resti di affreschi rinascimentali. Che si alzi il sipario sul Burcardo e il folto pubblico batta le mani.

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