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La rivoluzione romana dei Depeche Mode

Carlo Antini
Carlo Antini

Parole e musica come ascisse e ordinate

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Nella foto Martin Gore e Dave Gahan sul palco Foto: Nella foto Martin Gore e Dave Gahan sul palco
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C'è una rivoluzione che ha fatto da filo conduttore alle oltre due ore di musica che hanno offerto i Depeche Mode allo stadio Olimpico di Roma. La rivoluzione che parte dall'omonimo brano iniziale dei Beatles e passa per quella “Where's the revolution?” che Gahan e compagni suonano davanti a un pubblico già in delirio. Una rivoluzione agognata, inseguita, desiderata e (forse) fallita. Ma che si intreccia con le vicende artistiche e personali di una delle band più importanti del rock elettronico degli ultimi 40 anni. Il concerto romano si apre sulle note di “Going backwards” e “So much love”, entrambe tratte dal nuovo album “Spirit”. Gahan si dimena come un ossesso, si tocca, vestito solo di un gilet che lascia scoperte spalle e braccia. A 55 anni è ancora in grado di reggere il palco come un ventenne. Sopravvissuto alla droga, ai tumori e perfino a se stesso. In “Barrel of a gun” il pop si dilata fino ad abbracciare le rime hip-hop di Grandmaster Flash & Furious Fine. La classe non è acqua. Come quella di Anton Corbijn che dai maxischermi commenta una magistrale esecuzione di “In your room” con un video che ritrae la sensuale danza di due ballerini. Poi si comincia a fare sul serio con “World in my eyes” e “Cover me” con Gahan/astronauta che lancia un segnale profetico per il finale. Sale in cattedra Martin Gore, autore e mente pensante della band inglese, che interpreta “A question of lust” e “Home” con la consueta delicatezza. Si tira il fiato e il secondo tempo del concerto parte col cambio di gilet. Gahan torna sul palco ancheggiando alla Mick Jagger e cantando “Poison Heart”, “Where's the revolution?” e “Wrong” tratta da “Sounds of the universe”. La parte finale della tappa romana del “Global Spirit Tour” (che replicherà anche in autunno con 3 nuove date nei palasport di Torino, Bologna e Milano) è quasi tutta interamente dedicata alle canzoni che hanno condotto i Depeche Mode nell'Olimpo del pop. “Everything Counts”, “Stripped”, “Enjoy the Silence” e “Never let me down again”: un poker d'assi che non lascia scampo e trasforma l'Olimpico in un unico coro di 53 mila voci. Sul ritmo di un fenomenale Christian Eigner alla batteria, penalizzato dalla non perfetta resa acustica generale. Si arriva così ai bis finali. Cinque brani aperti dalla dolcissima “Somebody” con la voce di Martin Gore che lascia palco e riflettori al "suo" Dave per la definitiva “Walking in my shoes”, questa volta ulteriormente nobilitata dalle immagini di Corbijn che racconta la giornata di un artista travestito, dal caffè della mattina al trucco e parrucco, fino all'ingresso nel locale notturno dove si esibisce la sera. La rivoluzione dei Depeche Mode passa per l'omaggio a David Bowie e alla sua “Heroes”, celebrazione e disincantato riflesso delle profezie dell'indimenticato Duca Bianco. Il controfinale di “I feel you” fa ergere Eigner ancora una volta in modo magistrale. E annuncia il gran finale. Intanto sull'Olimpico il sole è tramontato e il pubblico sfolla nella notte sull'eco di “You're own Personal Jesus/Someone to hear your prayers/Someone who cares/Reach out and touch Faith”. Testamento musicale che svela la sua vera natura spirituale. Con la rivoluzione ancora nelle orecchie.

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