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L'Italia delle disuguaglianze può tollerare gli sprechi della Rai?

Fabio Fazio e Luciana Littizzetto a “Che tempo che fa

Carlantonio Solimene
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Quando si fa il lavoro del giornalista ci si chiede spesso dove si trova il confine tra la giusta denuncia e la demagogia. Prendete ad esempio il rapporto Istat 2017 sulle classi sociali in Italia. E' per certi versi scioccante. Vi è scritto che ci sono 1,6 milioni di famiglie in stato di povertà assoluta e che il il 28,7% degli italiani è a rischio di povertà o esclusione sociale. Il 70% degli under 35 vive ancora con i genitori. Le professioni intermedie sono scomparse e le disuguaglianze non solo aumentano, ma sembrano sempre più cristallizzate. L'ascensore sociale non esiste più. O meglio, esiste ed è facilissimo da prendere verso il basso. Praticamente impossibile verso l'alto. Contestualmente nelle librerie arriva l'ultimo libro dell'ex premier ulivista Romano Prodi. Si intitola “Il piano inclinato” e contiene una serie di ricette che, a detta del professore bolognese, potrebbero aiutare la ripresa del Paese. Partendo da un assunto: le disuguaglianze non sono l'effetto della crisi, ma la causa. Prendendo per buona questa teoria e tenendo sempre a mente il quadro disegnato dall'Istat, il futuro dell'Italia si presenta assai fosco. Fin qui i fatti, la denuncia. Il demagogo, a questo punto, prenderebbe l'elenco dei calciatori di serie A più pagati e urlerebbe alla folla: “Vi sembra possibile che mentre c'è un sacco di gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese, questi guadagnano un sacco di milioni di euro solo per dare qualche calcio a un pallone?”. Occorrerebbe spiegargli che quegli stipendi, meritati o meno, sono commisurati al giro d'affari che il gioco del calcio muove. Voglio dire: se c'è tanta di quella gente disposta a pagare per vedere in tv quelle persone correre dietro a un pallone al punto da convincere i big dell'emittenza a spendere finanche un miliardo di euro per acquisire i diritti di tre campionati di serie A, è giusto che quel fiume di denaro finisca anche (o soprattutto) nelle tasche di chi lo ha generato. Altrimenti si arricchirebbero solo gli intermediari (procuratori, dirigenti ecc). Denuncia da una parte, demagogia dall'altra. Ma il confine è sempre così netto? Negli ultimi tempi si è discusso molto del tetto ai compensi dei dipendenti Rai. Per mesi si è dibattuto sulla necessità di imporlo anche alle retribuzioni dei cosiddetti artisti oltre che a dirigenti e giornalisti. Si è alzato un polverone poiché i diretti interessati - oltre a qualche membro del Cda - hanno sostenuto che così si sarebbe impoverita la televisione di Stato. “I migliori se ne andranno dove possono pagarli meglio” è stato detto. A finire nel mirino è stato soprattutto Carlo Conti, per i 650 mila euro incassati per presentare e ricoprire il ruolo di direttore artistico del Festival di Sanremo. La replica di Viale Mazzini è stata sostanzialmente quella che potrebbero accampare i calciatori: “Il Festival genera un giro d'affari molto ricco per la televisione di Stato che copre abbondantemente lo stipendio di Conti”. Anche in questo caso si può parlare di inutile e stupida demagogia? Io non credo. Credo che abbia ancora un senso fare una distinzione tra pubblico e privato. Nel privato ogni imprenditore è libero di regolarsi come meglio crede, di pagare gli stipendi che vuole, di pensare a fare cassa piuttosto che a investire. Nel pubblico, chi dirige la baracca non può ignorare lo stato del Paese. Se 1,6 milioni di famiglie sono in uno stato di povertà assoluta, pensare che un Bruno Vespa, un Fabio Fazio, una Antonella Clerici o un Carlo Conti non possano accontentarsi di 240mila euro l'anno (20mila euro al mese, lo stipendio del presidente della Repubblica) è francamente inaccettabile. Così come appare ridicola la corsa al cavillo legale per aggirare la circolare che avrebbe dovuto imporre il tetto ai compensi. Alcuni artisti, Fabio Fazio in primis, hanno fatto trapelare la possibilità di trasferirsi in altre aziende se fosse passato il limite massimo di 240mila euro. Forse hanno dimenticato il destino di tanti personaggi lanciati da viale Mazzini: senza mamma Rai, sono scomparsi. Lavorare per la televisione di Stato, mettersi al servizio della comunità, dare qualcosa di tangibile alla società, dovrebbe infine rappresentare una ricchezza diversa ma ugualmente importante che andrebbe ad aggiungersi a quella materiale. E se questo non basta, se davvero la Rai deve pagare stipendi faraonici per prendere i migliori artisti sul mercato, allora che ci stia sul serio sul mercato: venga privatizzata e non pesi più sulle famiglie neanche per quei residui novanta euro di canone. Concorrenza alla pari con le tv private: e in quel caso, forse, a essere tagliati non sarebbero solo gli stipendi dei super big, ma proprio il loro posto di lavoro. (Il finale è demagogico, lo ammetto).

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