Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Aliquote Irpef, 23 anni di promesse svanite

Carlantonio Solimene
  • a
  • a
  • a

Meno tasse per tutti. Non è stato solo un celebre slogan berlusconiano, ma il vero e proprio leit motiv di ogni campagna elettorale e di ogni candidato premier che si rispetti. Eppure alla prova dei fatti tradurre lo slogan in realtà (e cioè nella riforma delle aliquote Irpef) si è rivelato praticamente impossibile. I livelli di prelievo fiscale sul reddito sono ormai fermi dal 2007, dieci anni fa. Ad allora risale l'ultima riforma delle aliquote, targata Romano Prodi. Che in realtà ritoccava verso l'alto quelle licenziate solo un paio di anni prima dal terzo governo Berlusconi. Da allora non si è mosso più nulla: i redditi fino ai 15mila euro l'anno sono tassati del 23%; quelli fino ai 28mila del 27%; chi guadagna 55mila euro l'anno paga il 38%; a chi ne porta a casa fino a 75.000 tocca il 41%; il 43% spetta ai più «ricchi», se così si può considerare chi guadagna 80mila euro (lordi) in dodici mesi. Nel frattempo tutte le promesse di diminuire il peso fiscale sulle spalle degli italiani sono state disattese, e i vari governi alternatisi in dieci anni (Berlusconi quater, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) sono riusciti al massimo a estendere il più possibile la tipologia delle spese detraibili. A inaugurare il festival dei sogni sfumati fu proprio Berlusconi, che nel suo contratto con gli italiani del 2001 mise per iscritto il progetto di ridurre il prelievo fiscale a sole due aliquote: 23% per chi guadagnava fino a 200milioni di lire (c'erano ancora loro) l'anno, 33% per chi superava quella soglia. Fino ai 22 milioni, invece, sarebbe scattata l'esenzione totale. Quattro anni dopo la riforma - realizzata in due fasi - si rivelò abbastanza diversa da quella promessa: Berlusconi aveva sostanzialmente alzato le tasse ai redditi più bassi (dal 18 al 23%) e le aveva abbassate a quelli più alti. Fino ai 100mila euro di reddito annui si pagava il 39% di tasse, oltre il 43. L'idea, insomma, era quella di sgravare i ceti produttivi augurandosi che questi spingessero l'economia. Non dovette andare esattamente così se due anni dopo il governo Prodi, nel mirino ieri come oggi delle critiche dell'Europa per il dissesto dei conti pubblici italiani, licenziò una manovra da 33,4 miliardi ritoccando praticamente tutte le aliquote verso l'alto. A pagare il conto più gravoso furono le fasce più abbienti della popolazione, rispettando peraltro quell'«anche i ricchi piangano» che comparve sui manifesti di Rifondazione Comunista proprio a ridosso della Finanziaria. Così chi guadagnava dai 75.000 ai 100.000 euro lordi all'anno si vide d'improvviso aumentare il prelievo di quattro punti percentuali, dal 39 al 43%. Un peso gravoso: lo hanno riconosciuto praticamente tutti i presidenti del Consiglio o gli aspiranti tali. Nell'aprile 2008 Berlusconi prometteva: «Porteremo l'aliquota massima al 33%». Se ne dimenticò al governo. Nel febbraio 2012 Mario Monti promise l'aliquota minima al 20% (dal 23). Ma nell'agosto successivo spiegò che era «impossibile per la necessità di riequilibrare la finanza pubblica». Nel maggio 2016 Matteo Renzi parlò di ridurre le fasce Irpef già dal 2017, ma il referendum si è portato via il suo governo. O meglio, il governo è rimasto ma è cambiato il premier, con Gentiloni che nella manovrina di aprile non ha dato seguito alle promesse del suo predecessore. Intanto la prossima campagna elettorale è praticamente già cominciata con la promessa del centrodestra di applicare la flat tax, l'aliquota unica al 15 o forse al 20%. Un'ipotesi rivoluzionaria? Beh, chi ha un po' di memoria ricorda che di una riforma simile parlò già Antonio Martino nel 1994, ipotizzando il prelievo al 33% per tutti. Finì come sappiamo.

Dai blog