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Da Veltroni a Renzi, quanto (poco) è rimasto del sogno Pd

Carlantonio Solimene
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Poco meno di dieci anni. Per la precisione 3.525 giorni. Tanti ne saranno passati domenica dal 27 giugno 2007. Alla fine del- la retta temporale c'è l'ormai imminente assemblea del Partito Democratico che potrebbe sancire la scissione del gruppo guidato dall'ex segretario Pier Luigi Bersani. All'inizio, il «discorso del Lingotto» con il quale Walter Veltroni, nel candidarsi al ruolo di primo leader della creatura politica che sarebbe nata quattro mesi dopo, ne elencò le ambizioni per se stessa e per il Paese intero. Nel momento in cui Renzi dà appuntamento nello stesso Lingotto, dal 10 al 12 marzo, per presentare la sua nuova piattaforma programmatica, rileggere lo sbobinato del discorso di Veltroni fornito dall'organizzazione - trentatrè pagine, curiosamente la stessa percentuale, il 33%, ottenuta alle Politiche successive - è il modo migliore per verificare quanto il progetto di unire la cultura post comunista e quella democristiana si sia rivelato fallimentare. Di più: la fiera delle occasioni mancate. Eppure Veltroni lo aveva ribadito più volte quel giorno. Le idee delle due tradizioni politiche dovevano «mescolarsi» affinché questo scambio «sempre di più farà sentire a ognuno di essere non una sola cosa, ma più d'una insieme. E cioè, semplicemente un "democratico"». E ancora: «Il Partito democratico non sarà mai un partito di ex». Per concludere: «Se questo partito dovesse iniziare il cammino con i difetti della politica preesistente, con i gruppi e le correnti chiuse e in conflitto, sarebbe quanto di più lontano dallo spirito che in queste ore sento attorno a noi». La cronaca recente dimostra in modo plastico quanto quello spirito sia evaporato in fretta. O forse non sia mai esistito. Con esso, sono rimasti lettera morta tutti i punti programmatici elencati dal primo segretario. Il Pd non contribuì alla stabilità del governo Prodi e Veltroni, candidandosi premier nel 2008, non mantenne «il patto che ho stretto con Roma al quale non posso e non voglio venir meno». Così come, drammaticamente, non è riuscito a «unire gli italiani, unire ciò che è contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi». Le differenze, anzi, si sono accentuate. E a pagarne il conto è stato proprio un Pd ormai inviso a tutte le categorie in difficoltà. Sud e giovani in primis. Parlava di «lotta alla precarietà», Veltroni, definendola «la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sè». Dieci anni dopo, Renzi avrebbe eliminato il totem dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e introdotto i controversi voucher. Le ricette economiche del primo segretario, poi, partivano dalla necessità di ridurre drasticamente il debito pubblico. Che all'epoca viaggiava intorno ai 1.600 miliardi. E oggi ha superato i 2.200. Certo, non ha governato sempre il Pd. Ma basti sottolineare che dal 2013 in poi - con gli esecutivi Letta, Renzi e Gentiloni - è aumentato di 160 miliardi. C'era poi il capitolo riforme. Ed è qui che si registrano le delusioni maggiori. È vero, le Unioni Civili sono diventare realtà e probabilmente sono andate anche oltre gli obiettivi fissati all'epoca dai «Dico». Ma c'è poco altro da vantare. Già all'epoca si definiva «urgente e necessaria» una nuova legge elettorale. Ci sarebbe riuscito Renzi diversi anni dopo, prima che il suo Italicum venisse bocciato dalla Consulta. Si invocava stabilità e governi scelti dai cittadini, prima che lo stesso Pd contribuisse a issare a Palazzo Chigi quattro presidenti del Consiglio nati da quelle che Veltroni definiva «lunghe e a volte non troppo chiare trattative». Ci si chiedeva «perché in Italia ci devono essere mille deputati e senatori?», e ancora «perché una legge per essere approvata deve passare una o due volte in due rami del Parlamento?». Prima che tutti i tentativi di riforma, a destra e sinistra, venissero cassati dal pronunciamento popolare. E così, tra un fallimento e l'altro, anche il modello sociale basato su «integrazione e legalità, multiculturalità e sicurezza» sfumava. L'Unione Europea si dimostrava tutt'altro che quella panacea di tutti i mali che i Democratici ritenevano e in tutto il mondo avanzava quella «nostalgia nazionalistica» che Walter definiva «del tutto anacronistica» e che il suo Pd avrebbe dovuto seppellire per sempre. Ma, soprattutto, veniva meno un'idea di politica che si sarebbe dovuta basare su «sobrietà, rispetto, apertura e dialogo». «Basta - supplicava Veltroni - dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i veleni, con le polemiche che diventano insulto. Il Paese di tutto questo è stanco, non ne può più». Il Paese, in realtà, solo pochi anni dopo si sarebbe dimostrato stanco di quell'«ogm» politico mal riuscito quale è rimasto il Pd. E all'utopia della veltroniana politica «garbata» avrebbe preferito il becero e liberatorio «vaffa» di Beppe Grillo.

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